Grandi mostre. 5
I bastoni di comando dell'Oceania a Venezia

i segni
del potere

Una mostra veneziana presenta una serie di oggetti poco noti, realizzati in Oceania perlopiù tra sette e ottocento. Sono i “bastoni di comando”: insieme opere di scultura, armi cerimoniali, simboli di potere che ci mettono di fronte a una bellezza formale inattesa e alla necessità di guardare con uno sguardo nuovo alle poche tracce di una civiltà che il colonialismo non ha del tutto cancellato.

Claudio Pescio

Il primo impatto è di ordine estetico. Ci troviamo, in mostra, in un allestimento che ci mette di fronte a oggetti che percepiamo come “belli” da vedere: forme e pesi ben calibrati, soluzioni funzionali per impugnature e utilizzi, simmetrie o asimmetrie mai casuali, decorazioni accurate con frequenti rimandi a forme naturali, superfici intenzionalmente scabre o levigate, evidenti segni di una cura speciale nella conservazione e nell’uso. C’è un’intenzione estetica chiaramente percepibile, nella scelta di chi ha creato questi manufatti. Ma che oggetti sono? A cosa servivano? 


Stiamo parlando di una rassegna molto ampia di “bastoni”; interpretabili come utensili o armi o strumenti di comunicazione. Più spesso sono tutte e tre queste cose, anche se l’elemento decorativo apparirebbe forse superfluo in un oggetto destinato solo al combattimento. I bastoni di comando dell’Oceania ci fanno capire subito, invece, che la ricerca di quella che abitualmente chiamiamo “bellezza” era parte del mestiere e delle intenzioni di chi li costruiva e di chi li possedeva. 


La rassegna comprende centotrenta “bastoni del potere”, ed è stata concepita come una mostra di sculture, realizzate tra Sette e Ottocento nelle isole del Pacifico e utilizzate come armi (raramente) ma soprattutto come simboli di potere, oggetto di scambi regali, incarnazioni di spiriti magici, attrezzature cerimoniali. Appartengono a collezioni di musei – soprattutto a depositi museali – di tutto il mondo. Originariamente provengono soprattutto da Nuova Zelanda, Marchesi, Figi, Tonga, Rapa Nui, Salomone. Sono frutto di raccolte collezionistiche operate da occidentali (viaggiatori, militari, invasori, religiosi, mercanti), un tempo esibite come trofei ma da anni nascoste: in quanto “armi” e in quanto prove tangibili di una mentalità coloniale. In parte anche perché difficili 75 da esporre, date le misure decisamente non standard (vanno dai cinquanta centimetri a più di tre metri di lunghezza) e la necessità di supporti appositamente studiati.

“cali”, bastone di comando a sperone, isole Figi (inizio XIX secolo);


“tavatava”, mazza da lancio con intarsi, isole Figi (prima metà XIX secolo), entrambi Venezia, collezione Ligabue.

bastone di comando con testa antropomorfa, isole Figi (fine XVIII - inizio XIX secolo), Londra, British Museum;


“‘ao”, bastone di comando bifronte, Rapa Nui (prima metà del XIX secolo), Roma, congregazione dei Sacri Cuori di Gesù e Maria.

Ma la mostra ripropone anche il problema - particolarmente sentito in questi ultimi anni - della liceità da parte occidentale di esporre reperti segnati da un rapporto culturale alterato dall’uso della violenza. Non a caso l’inaugurazione è stata preceduta da una sorta di “benedizione” per canto e danza da parte di una delegazione maori, in segno di rispetto reciproco tra culture che esprimono così la volontà di instaurare un dialogo paritario.

È un’occasione per riflettere sull’universalità delle leggi che sembrano governare la creatività umana: linearità, simmetria, ripetitività di segni a comporre pattern, ricerca di equilibrio. O alterazione consapevole di questo stesso equilibrio.

A rifletterci, per molti europei - e per alcuni secoli - un’arma come la spada è stata un complemento decorativo dell’abbigliamento. Così come è evidente che tra uno scettro, un pastorale e un bastone decorato delle isole Salomone non c’è molta differenza concettuale. Si tratta di simboli di prestigio, status, comando, rango. Spesso il loro uso era limitato alla sfera simbolica, anche se il riferimento di base era inequivocabilmente a un’arma. A volte questi oggetti sono decorati con riferimenti a una divinità: supporto e garanzia in caso di combattimento. 


Anche in Occidente spesso le armi sono state decorate, anche in tempi recenti, senza smettere di essere “armi”; e sono oggetto di studio da parte di storici dell’arte. In fondo “idoli” sono le immagini sacre degli altri, mai le nostre.

Il curatore principale della mostra, Steven Hooper, riconosce in questi bastoni di comando una dimensione religiosa, di scambio uomo-divino, attività che trova una traduzione nella dimensione estetica, intesa come ponte fra i due ambiti. L’arma diventa così un “fatto sociale”, parla di relazioni. Ma la questione si fa anche terminologica: se un bastone viene scagliato diventa una lancia? Se sembra una mazza può essere uno scettro?

Questo affascinante groviglio di questioni nasce da una difficoltà di fondo: la quasi totale mancanza di documenti che certifichino l’uso e il senso di questi oggetti. Un contesto che oggi ci sfugge ma che accende il desiderio di saperne di più. Come se quelle opere (d’arte?) aspettassero solo di essere tirate fuori dai depositi per riattivarsi e tornare ad agire e comunicare. Vengono da quelle che erano chiamate “culture senza storia” perché non dotate di scrittura. Ma è soprattutto evidente che ogni informazione in merito è stata cancellata per sempre, e nel giro di poche generazioni, da una cultura coloniale che incoraggiava in ogni modo i popoli sottomessi a dimenticare ogni dettaglio di una religiosità e di una gerarchia sociale che dovevano scomparire per far posto al nuovo. In fondo chi decide cosa merita memoria è proprio chi ha in mano il bastone del comando.


“siriti”, bastone di comando a due mani, isole Figi (fine XVIII - inizio XIX secolo), Londra, British Museum;

bastone di comando con lama a foglia, isole Salomone, Santa Isabel o gruppo della Nuova Georgia (seconda metà del XIX secolo), Parigi, Musée du Quai Branly- Jacques Chirac.


“Koka”, bastone da danza, Papua Nuova Guinea (seconda metà del XIX secolo), Leida, Nationaal Museum van Wereldculturen.

MIGRAZIONI O SCOPERTE GEOGRAFICHE?
I primi insediamenti umani in Australia risalgono a 60.000-50.000 anni fa. Gli arcipelaghi più orientali rimasero disabitati fino a 3500-3000 anni fa, periodo in cui si diffonde la cultura lapita (da un sito della Nuova Caledonia), espressa da un popolo di navigatori esperti, padroni della tecnica di produzione della ceramica. Successive ondate migratorie all’interno di quella che chiamiamo Polinesia proseguirono fino a 1000 anni or sono, quando gli esseri umani arrivano alle Marchesi, alle Hawaii e a Rapa Nui. In Nuova Zelanda (che oggi ha aggiunto alla sua denominazione anche quella maori di Aotearoa) giungono solo nel XII-XIV secolo, quando l’Europa è in pieno Medioevo. In quello stesso periodo gli studiosi ritengono che i polinesiani siano arrivati in Sud America, vi abbiano impiantato delle basi e ne siano tornati con nuove specie vegetali coltivabili. Vanno aggiunti quindi alla schiera degli scopritori dell’America.


UN’OCCASIONE PER RIFLETTERE
SULL’UNIVERSALITÀ DI QUELLE CHE
SEMBRANO ESSERE LE LEGGI DELLA
CREATIVITÀ UMANA

Power and Prestige. Simboli del comando in Oceania

Mostra a cura di Steven Hooper, promossa
e organizzata dalla Fondazione Giancarlo
Ligabue di Venezia in collaborazione
con il Musée du Quai Branly - Jacques Chirac
di Parigi
Venezia, Palazzo Franchetti
campo Santo Stefano
fino al 13 marzo
orario 10-18, chiuso lunedì
catalogo Skira
www.palazzofranchetti.it

ART E DOSSIER N. 394
ART E DOSSIER N. 394
GENNAIO 2022
In questo numero: IN MOSTRA: Bruguera a Milano; Klimt a Roma; Julie Manet a Parigi; Van Gogh ad Amsterdam; Arte dell'Oceania a Venezia. PUNTI DI ROTTURA: Arte e bolle di sapone; Shore: il declino dell'industria americana; che fine hanno fatto gli Annigoni perduti?; Che fine farà Santa Maria della neve in Valnerina?Direttore: Claudio Pescio