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SCOSSA DOPO SCOSSA,
LA CHIESA È NELLA FOSSA

Fabio Isman

Castel Santa Maria, (Cascia, Perugia). Qui nella seconda metà del Cinquecento sorge, per un circostanza straordinaria, la chiesa della Madonna della neve. Custode di preziosi affreschi, l’edificio è stato messo a dura prova da una serie di terremoti. I restauri? In ritardo, inappropriati e da quarant’anni inesistenti. La morte del tempio, oggi ridotto a un rudere, poteva essere evitata. Qualcuno ne risponderà?

I terremoti sono sempre una grande tragedia, anche, e soprattutto, nostrana. Cinque anni dopo quello del 2016 nell’Italia centrale (circa trecento vittime e quattrocento feriti, quarantamila sfollati), Camerino (Macerata), ed è soltanto un esempio, non è ancora tornata a vivere, e sembra un fantasma: centotrentacinque case sistemate, su duemilatrecento inagibili; in centro, due esercizi aperti su venti, e in funzione appena cinque cantieri. Facile presagire, ironizzando un pochino, fine lavori forse mai: come l’ergastolo per i detenuti. Per la ricostruzione post sisma, il governo ha nominato commissario Giovanni Legnini, già vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura e sottosegretario alla Presidenza del consiglio, il quale ammette che il ripristino «procede, però resta ancora molto lavoro da fare».

E già nel 2009 c’era stato un altro sconquasso tellurico. A Teramo, per esempio, evase finora soltanto il cinquantasei e quattro per cento delle pratiche di riedificazione. E parliamo di pratiche: non di lavori in corso. Ma prima ancora, la Valnerina, l’area più povera dell’intera Umbria, era stata colpita nel 1979: cinque morti, ma più di seimila sfollati e almeno cento miliardi di danni (allora, di lire). A parte quelle umane, dolorosissime, la più significativa e amara vittima dell’evento fu la chiesa della Madonna della neve, a Castel Santa Maria, una piccola frazione di Cascia (Perugia). Ne restano dei monconi, e dentro delle teche, rivelatesi assai problematiche, interessanti affreschi, ormai inesorabilmente sul punto di svanire. La sua fine, tuttavia, non si deve alla fatalità: è un delitto eccellente, ed è rimasto impunito.

L’edificio nasce tra il 1565 e il 1571 a seguito di un evento “miracoloso”: un contadino, che si era perso per tre giorni nella tormenta, è trovato, incolume e coperto di neve, in una piccola cappella del luogo. Per volere del vescovo, Fulvio Orsini, viene edificato un tempio dove sorgeva quel sacello. La comunità sceglie un progetto mai realizzato da Bramante per la basilica di San Pietro: a croce greca, otto facce, tre portali d’ingresso e quattro pilastri angolari. Simile, pressoché coevo e non lontano, è il santuario di Macereto, sul versante occidentale dei monti Sibillini (Comune di Visso, Marche). La chiesa è affrescata dai fratelli Fabio e Camillo Angelucci di Mevale, un borgo dell’alta Valnerina: due pittori locali di buona scuola; il padre Gaspare aveva frequentato quella di Raffaello e veduto le opere di Michelangelo. Dipinti notevoli, «per la vivacità dei colori e la grazia armonica delle composizioni», dice Daniela Mancini, laureata in Beni culturali, che li ha studiati. E la storica dell’arte Elisa Di Agostino, che ha dedicato loro la tesi di laurea, scrive: «Figure di altissima qualità»; le opere dei due fratelli sono conservate un po’ in tutta l’Umbria.

Il primo colpevole un cordolo di cemento: il peso eccessivo e la rigidità che impone alla struttura, nel movimento tellurico del 1979 fanno crollare il tetto e tanto altro


Questa la storia della vittima. Ma perché è defunta? Stefano D’Avino, docente di restauro architettonico all’ateneo di Chieti-Pescara, racconta gli errori remoti e l’attuale inerzia. «La chiesa aveva resistito a tanti terremoti, anche a quelli terribili del 1599 e 1703»: quasi diecimila vittime, L’Aquila e altre città rase al suolo. Anche Cascia. Ma sarà merito di Rita, la «santa degli impossibili», la Madonna della neve se la cava. Un altro sisma, nel 1916, danneggia il tetto e gli apparati murari, provoca il distacco di larghe parti degli affreschi; ma la chiesa stava ancora in piedi. Un progetto di restauro degli anni Venti prevedeva, sotto la cupola, un cordolo in cemento: che però, viene cancellato. Risorge tuttavia nei lavori degli anni Sessanta. Ed è il primo colpevole: il peso eccessivo e la rigidità che impone alla struttura, nel movimento tellurico del 1979 fanno crollare il tetto, che si porta dietro tre dei quattro pilastri e, ovviamente, tutte le tamponature. 


Questo è il primo atto del “templicidio”. Il secondo, è del 2016: un altro sisma abbatte il poco che si era salvato; anche la canonica adiacente, che allora esisteva ancora. Da quel momento, il disastro si completa. «A terra era stato rimontato un portale, ma è scomparso. Poi la Soprintendenza aveva iniziato a numerare le singole pietre, però il suo elenco non si trova più. E tanti reperti, nemmeno», dice D’Avino. «Con i miei allievi, li avevamo visti; chissà che fine hanno fatto». Da quarant’anni, il disinteresse e l’abbandono sono assoluti. «Eppure, quelle rovine tenevano insieme le maglie di una comunità», spiega Alessandra Albanesi, che, con Elisa Di Agostino e altri, nel 2009 ha fondato la Pro Loco a Castel Santa Maria: fino al 2016, tra l’altro, l’ente ha celebrato la festa della Madonna della neve (5 agosto: quando nel 358 nevicò a Roma dove c’è Santa Maria Maggiore), con centinaia di persone che ritornavano per l’occasione nel paese d’origine. Dopo il primo sisma, quello del 1979, il borgo è stato ricostruito su una collinetta di fronte; ma il secondo, terntasette anni dopo, ha lesionato anche questi nuovi edifici: oggi, «a Castel Santa Maria vivono appena tre anime».

Le due fondatrici dell’associazione cercano di mantenere in vita la memoria del luogo: «Nel giorno delle Perseidi, le stelle cadenti, questa chiesa ormai a cielo aperto è finita pure sulla Cnn; tra quei ruderi, siamo riusciti a far tornare anche la musica: un tempo, c’era un organo bellissimo; ora cerchiamo di portarvi mille violini, con l’aiuto del conservatorio di Perugia. Da questo luogo emana un’energia magica. Vorremmo ricostruirlo, con un intervento contemporaneo, che lo trasformi in un’opera d’arte». La conca, dove era la chiesa, è bellissima e suggestiva: quei moncherini stonano.

Alla riedificazione pensa anche D’Avino: «La curia mi aveva incaricato di un progetto. Poi, però, non l’ha voluto portare avanti. L’ho presentato in Soprintendenza; ma senza la firma dell’ente religioso proponente, non l’hanno accettato». Lo stesso docente ha anche organizzato due convegni sul tema: «Tante promesse e tanti impegni, ma nulla di reale»; Greta Thunberg direbbe «solo il solito bla bla». Il poco che si è salvato degli affreschi è sulle murature rimaste, in alcune teche costruite subito dopo il sisma del 1979: «Era un intervento d’urgenza, che però dura da otto lustri. Le vetrine non sono le più idonee alla conservazione, a oltre mille metri d’altitudine, dove c’è spesso la neve: vi è spuntata dentro perfino la vegetazione; ogni anno, fotografo i dipinti: e sono sempre più evanescenti», continua D’Avino. Degli affreschi eseguiti dagli Angelucci («delicatissimi: avevano varie parti a tempera») restano solo alcuni brani, le sinopie e, a terra, lacerti di intonaco: il “templicidio” si completa così con l’“affreschicidio”. L’orribile delitto è compiuto; e per esso, nessuno pagherà.


La chiesa della Madonna della neve com’era.


La chiesa distrutta dopo il terremoto del 1979.


I ruderi della chiesa della Madonna della neve.

Ciò che è rimasto degli affreschi realizzati da Fabio e Camillo Angelucci di Mevale dal 1570 al 1584: un brano all’interno di una vetrina non idonea alla conservazione delle opere a oltre mille metri di altezza;


un altro brano con la Nativitˆ.

ART E DOSSIER N. 394
ART E DOSSIER N. 394
GENNAIO 2022
In questo numero: IN MOSTRA: Bruguera a Milano; Klimt a Roma; Julie Manet a Parigi; Van Gogh ad Amsterdam; Arte dell'Oceania a Venezia. PUNTI DI ROTTURA: Arte e bolle di sapone; Shore: il declino dell'industria americana; che fine hanno fatto gli Annigoni perduti?; Che fine farà Santa Maria della neve in Valnerina?Direttore: Claudio Pescio