XXI secolo. 2
Stephen Shore

Cronaca
di un declino

Stati Uniti, fine anni settanta. La regione, denominata Rust Belt, compresa tra la parte nord-orientale e quella centro-occidentale del paese sta per vivere una grave crisi economica. Stephen Shore è chiamato a documentarne lo stato di degrado e desolazione con il progetto Hard Times come to Steeltown commissionato da "Fortune" e di recente pubblicato da Mack nel volume Steel Town.

Francesca Orsi

Dopo il dittico American Surfaces e Uncommon Places, degli anni Settanta – con cui Stephen Shore aveva dato un volto apparentemente banale, e profondamente simbolico, al sogno americano, trovando uno stile tutto suo per leggere visivamente un’America a colori – nel 1977 gli venne commissionato dalla rivista “Fortune” un lavoro che documentasse la crisi economica che stava attanagliando l’industria metalmeccanica in Ohio, Pennsylvania e in tutto lo Stato di New York. Era l’inizio di quello che, negli anni Ottanta, avrebbe dato luogo alla Rust Belt americana, un’ampia zona degli Stati Uniti nord-orientali e centro-occidentali affossati da un profondo declino industriale e conseguentemente anche economico e sociale.

Questo progetto, comparso sulle pagine del famoso magazine americano con il titolo di Hard Times come to Steeltown, è stato recentemente pubblicato per la prima volta dall’editore Mack con il titolo Steel Town. In questo volume emerge evidente l’approccio già applicato da Shore nei suoi precedenti lavori, quella ricerca del banale visto con gli occhi di chi lo osserva per la prima volta, riuscendo a caricare gli oggetti e le situazioni di una vitalità nuova, anche e soprattutto simbolica. Ma ciò che di veramente nuovo compare in questo lavoro del maestro americano è l’urgenza temporale, la necessità di documentare una situazione che riguardava un’attualità storica ben precisa, un “hic et nunc”. Quella di Shore non era più un’operazione concettuale, e non partiva come tale, ma comunque la documentazione che ne seguì fu una “documentazione trascendente”.

LE IMMAGINI RISUONANO ANCHE PER IL LORO VALORE METAFORICO, PER LA LORO VALENZA EMOTIVA E INCONSCIA RISPETTO ALLA REALTÀ


Infatti, Steel Town risulta una rappresentazione sicuramente oggettiva del momento che l’America stava attraversando ma le immagini risuonano anche per il loro valore simbolico e metaforico, per la loro valenza emotiva e inconscia rispetto alla realtà che Stephen Shore era stato chiamato a raccontare. La sua attenzione sembra più indirizzata ai segni, alle tracce della crisi e del degrado, dell’impoverimento sociale ed economico. La desolazione pervade le strade - i negozi abbandonati, le insegne dei bar rimaste lampeggianti per una clientela fantasmatica - ma anche gli interni delle case e i volti dei suoi abitanti. Le immagini suggeriscono uno stato mentale e interiore di una cittadinanza e di una parte del paese. Anche quando si tratta di immortalare i lavoratori disoccupati che protestano per i propri diritti, il piano di lettura delle fotografie non è legato semplicemente al visibile, ma al percepibile, al valore intrinseco delle parole, per esempio, sui cartelloni, al loro significato nel mondo, al loro essere ponte di congiunzione tra una dimensione simbolica e quella tangibile, “Fight for Every Job”, della lotta per il lavoro.

In Steel Town torna anche la rappresentazione del trash, dello scarto, del banale che solitamente il fotografo newyorchese ama documentare come simbologia di una realtà pulsante e marcatamente americana. Ma in questo caso, anche se la colazione scartata e lasciata sul tavolo continua, in parte, a rappresentare un’“americanità” visiva, è inoltre un elemento che va a inquadrare l’umore e il sentimento di un preciso momento storico.

“Fortune”, imbevuto della tradizione di Walker Evans, che per la rivista lavorò fino al 1965, si apprestava a cambiare immagine, a diventare un bisettimanale, a concedere meno spazio ai suoi portfolio fotografici, a trattare l’attualità con più immediatezza. Hard Times come to Steeltown risultò così uno spartiacque, l’ultima testimonianza di una scuola che vedeva nella fotografia “in stile documentario” un modo per cogliere non solo qualcosa nel mondo, ma anche le sue risonanze con la dimensione simbolica e inconscia dell’immagine. Quello che fotografò Stephen Shore in Ohio, Pennsylvania e in tutto lo Stato di New York appare come un atlante di reperti, di rovine di una civiltà che stava scomparendo, immortalata nel mentre della sua sparizione, quando le strade erano appena rimaste vuote, le auto stavano per essere risucchiate nel terreno dal trascorrere del tempo, il mastodontico corpo delle fabbriche era ancora caldo e i viali erano animati unicamente dal cadere delle foglie d’autunno.




Tutti i lavori del fotografo americano portano con sé una dimensione sospesa della storia, del tempo e dello spazio e, paradossalmente, per un progetto che doveva documentare l’attualità, questa dimensione risulta ancora più accentuata. Steel Town parla, sì, dell’attualità di allora ma in quelle immagini è latente anche una dimensione ipotetica e futura, uno scorrere ad alta velocità che avrebbe portato la Pennsylvania e tutti gli altri Stati a un cambiamento di identità sociale e politica. È come se le immagini di Shore fossero schiacciate tra passato, presente e futuro diventando quasi astratte, portatrici di un livello archetipico di graduale e assoluto decadimento senza tempo. 

Steel Town, il libro, rincorre fedelmente, nel suo design e nelle scelte editoriali, il processo di degrado e desolazione che il lavoro di Shore ha voluto testimoniare e lo fa con un’impaginazione essenziale, per non dire minimale: vuoti di pagine bianche, al massimo due immagini per pagina e uno spostamento delle stampe fotografiche verso il bordo più esterno che permette allo sguardo di creare mentalmente un “continuum” visivo. Inoltre, sono altri i tempi in cui Shore utilizzava una certa spettacolarizzazione dell’immagine con il grande formato, un’immagine in cui perdersi per grandezza e dovizia di dettagli. Invece per il libro Steel Town la scelta è ricaduta su una stampa di piccolo formato, contatti di negativi 4x5, che lascia galleggiare l’immagine all’interno della pagina bianca e rappresenta perfettamente il concetto di desolazione e declino che già Hard Times come to Steeltown voleva infondere sulle pagine di “Fortune”. Il lavoro dell’editore Mack con l’archivio del fotografo newyorchese è stato un lavoro molto approfondito e puntuale, non una semplice operazione tipografica di stampa retrodatata, un’aggiunta sterile al già visto e consolidato stile di Shore, ma un materiale pulsante che ha saputo arricchire il panorama di lettura e studio di uno dei massimi esponenti della fotografia mondiale, riuscendo inoltre a ricontestualizzare la sua produzione ai giorni nostri.


UN ATLANTE DI REPERTI, DI ROVINE DI UNA CIVILTÀ
CHE STAVA SCOMPARENDO

ART E DOSSIER N. 394
ART E DOSSIER N. 394
GENNAIO 2022
In questo numero: IN MOSTRA: Bruguera a Milano; Klimt a Roma; Julie Manet a Parigi; Van Gogh ad Amsterdam; Arte dell'Oceania a Venezia. PUNTI DI ROTTURA: Arte e bolle di sapone; Shore: il declino dell'industria americana; che fine hanno fatto gli Annigoni perduti?; Che fine farà Santa Maria della neve in Valnerina?Direttore: Claudio Pescio