I CONTI CON MORETTO
E CON MORONI‌

Proprio quel gesto di sicura presa esercitata su un oggetto ci potrebbe condurre a un altro dei protagonisti della squadra, aperta da Lotto e con Savoldo in funzione di buon secondo.

Potremmo giungere a Giovan Battista Moroni, più giovane di loro di quasi due generazioni, in cui peraltro si manifesta in qualche grado la tendenza a ricadere in uncerto arcaismo, da «seconda maniera». Ma questo gli succede nei dipinti di insieme, mentre invece egli si rivela quale straordinario ritrattista, sulla loro scia, anche lui in qualche misura conscio del ritardo di cui era vittima quando forniva scene di massa, e invece duro, lucido, risoluto nell’aderire alle fisionomie, ma soprattutto persuaso che dovesse entrare in gioco un motivo di compenso rispetto al rischio delle cadute nell’arcaismo. Lorenzo Lotto, come si è detto, per raggiungere questo effetto di compenso fa compiere ai suoi personaggi dei movimenti convulsi e spiazzanti. Savoldo si affida a un colorismo eccessivo, volutamente tenuto sopra le righe. Moroni per parte sua spinge i soggetti dei suoi ritratti ad afferrare qualche oggetto, quasi per zavorrarsi, per darsi più peso, più consistenza. Potranno essere gli strumenti del mestiere, le forbici di un sarto, o le statuette di un collezionista, o addirittura i cagnolini di una dama di alto censo, quel che conta è di inserire una nota in più, a integrazione del puro referto ritrattistico.


Ritornando alla squadra su cui Roberto Longhi ha puntato forte, alla ricerca degli anticipi su Caravaggio, un posto di tutto rispetto è stato da lui assegnato a Alessandro Bonvicini, meglio noto come Moretto di Brescia, e dunque concittadino di Savoldo, ma posteriore a lui di circa una generazione (nato nel 1498), È curioso notare che Longhi, non rispettando l’ordine cronologico, ne ha anticipato la trattazione, rispetto all’altro, e tutto sommato gli ha assegnato un ruolo più stringente in quella corsa da lui ipotizzata a fornire gli anticipi della rivoluzione caravaggesca. Ancor più curioso notare che in questa inversione delle parti il critico dei nostri giorni è stato anticipato da Vasari, che di Moretto ha parlato qualche riga prima di quelle riservate a Savoldo, e perfino in modo più diffuso, quasi a segno di un grado maggiore di consenso.

Moretto, Elia con l’angelo (1521-1524 circa); Brescia, San Giovanni Evangelista, cappella del Santissimo Sacramento.


Tobiolo con l’angelo Raffaele mentre catturano un pesce nel fiume Tigri (1527 circa), particolare; Roma, Galleria Borghese.

Gli attribuisce infatti il merito di averci dato «teste molto naturali, e molto bene abbigliate di drappi e vestimenti, perciocché si dilettò molto di contrafare drappi d’oro, d’argento, velluti e damaschi e altri drappi di tutte le sorte». Si potrebbe trasportare pari pari un giudizio del genere anche al caso del nostro Savoldo. Né Vasari si ferma qui, ma concede a Moretto un massimo di onore valutando «le teste di mano di costui […] vivacissime, e tengono della maniera di Raffaello da Urbino, e più ne terrebbero, se non fusse da lui stato tanto lontano». Francamente non si può condividere tanto apprezzamento, con una inevitabile ricaduta a sfavore del nostro Savoldo, che di fatto, come si è visto, ebbe un momento, a Firenze, di reale vicinanza con Raffaello, anche se allora il divino Sanzio non era ancora giunto all’acme delle sue prestazioni. Inoltre, a un esame comparativo, i dipinti di Moretto appaiono vittime di un eccesso di affollamento di cose e persone, ben lontane da una distribuzione spaziale davvero in linea con i requisiti di una «maniera moderna». Forse quella stessa precisione e meticolosità di tessuti, messa così bene in evidenza da Vasari, costituisce una nota di disturbo, di appesantimento, rispetto all’andamento più agile e sciolto che invece riscontriamo in quella specie di fratello maggiore che siamo venuti esaminando. Si ha un incontro dei due artisti nella trattazione, non proprio di un medesimo tema, ma di motivi molto prossimi. Nel caso di Savoldo, è il Tobiolo e l’arcangelo Raffaele, esaminato sopra, cui si può far corrispondere, per l’altro, Elia con l’angelo, Brescia, San Giovanni. L’esame di quest’ultimo dipinto conferma la conduzione più determinata, voluminosa, pesante che gli è propria, caratteri che si applicano anche al vasto retroterra paesistico aperto alle spalle della coppia. Ma proprio questo grado maggiore di determinazione, di pesantezza nei dettagli ne conferma un carattere arretrato, da quattrocentista ritardato, con esiti che restano lontanissimi dalla Tempesta giorgionesca. Non è che un traguardo così avanzato sia conquistato da Savoldo, ma il suo trattamento più leggero, dimesso, sfumato, affidato per emergere dallo sfondo alle solite unghiate cromatiche, ne conferma il destino globale, di essersi posto a mezza strada tra le due modernità, mentre Moretto, nonostante le alte valutazioni resegli a suo tempo da Vasari, e confermate nei nostri tempi da Roberto Longhi, mi pare arretrare, mancare traguardi particolarmente avanzati.

SAVOLDO
SAVOLDO
Renato Barilli
Giovanni Girolamo Savoldo completa, con il Romanino e il Moretto, la triade degli innovatori della pittura lombarda del primo Cinquecento. La sua formazione è emiliana e toscana, studia in ambito manierista, ma trova il contesto migliore per la sua pittura a Venezia attorno al 1520, in un momento di forte presenza di suggestioni fiammingo-germaniche e giorgionesche. Questa commistione di influenze determina il suo stile molto personale, costruito su una base disegnativa nitida, una grande attenzione al dettaglio e un gusto tutto veneto per la resa atmosferica: uno stile applicato a soggetti molto vari, dal ritratto alla pala d’altare, con una predilezione per i notturni.