IL FASCINO DELLE ANTICHE
ROVINE E LO SPLENDORE
DELLA NATURA MEDITERRANEA

La passione per l’antico, di cui non solo Roma ma molte altre città e luoghi conservavano le memorie, favorì, legato soprattutto alle richieste dei viaggiatori e dei collezionisti stranieri, il fiorire di un tipo particolare di vedute che decretò il successo di pittori di grande talento come Bernardo Bellotto, Francesco Zuccarelli, Giovanni Paolo Panini, Hubert Robert e di molti atri specialisti, ai quali veniva richiesto il ricordo delle città e delle località visitate e delle loro ricchezze artistiche.

Non si tratta però di vedute documentarie, ma dei cosiddetti “capricci”, cioè dei paesaggi ideali dove assemblare, riunendoli in maniera arbitraria anche se con grande estro decorativo e scenografico, monumenti diversi, creando quindi una sorta di memoria simultanea delle rovine più ammirate. Mentre nella serie dei “capricci romani” eseguiti a quattro mani da Bellotto e Zuccarelli appare l’ immagine di una Roma di fantasia, in cui monumenti reali sono abbinati a rovine immaginarie o addirittura a uno dei leoni collocato in primo piano dell’Arsenale di Venezia, nei capricci di Panini, una produzione vastissima prevalentemente indirizzata ai viaggiatori, ritroviamo maggiore precisione e intento archeologico nella rappresentazione dei monumenti antichi, proiettati con l’inserimento di figure o episodi della storia evangelica o antica in una dimensione senza tempo, suscitando così nello spettatore l’ammirazione per l’antica grandezza perduta. A questo sentimento eroico si sostituisce nei capricci di Hubert Robert la dimensione nostalgica del rimpianto, resa attraverso una pittura visionaria, atmosferica e sentimentale, molto diversa dal nitore ottico che caratterizza Bellotto e Panini. Come se l’intento principale non fosse quello documentario, ma la volontà di rendere l’impatto emotivo di fronte a questi resti imponenti e in certa misura misteriosi.

Le rovine di Robert preludono alla visione drammatica e romantica dell’antico, come testimonianza della caducità delle civiltà e degli umani destini, espressa in un celebre dipinto di Jacques Henri Sablet emblematicamente intitolato sulla scorta delle liriche composte da Goethe di ritorno dal viaggio in Italia del 1786-1788, Elegia romana. La piramide di Caio Cestio si staglia sullo sfondo di un cielo tempestoso dove la luce dei fulmini annuncia un imminente temporale, come se facesse parte del cimitero degli Acattolici che si estende ai suoi piedi. Un luogo reale, grazie alla presenza di questa rovina simbolica, diventa lo spazio della memoria, della riflessione sulla morte. I due personaggi, rimasti a lungo misteriosi e ora individuati nei fratelli Sablet cui è stato alternativamente attribuito il dipinto, piangono sulla tomba di un amico, investendo dunque il loro pellegrinaggio tra le vestigia dell’antica Roma di un’intensità nuova, simile all’approccio di Goethe, che di fronte alla «grandiosità» delle «rovine dei palazzi imperiali che sorgono come pareti di roccia», confessa che «di tutto questo non è certo possibile rendere un’impressione».


Ferdinand George Waldmüller, Rovine del Tempio greco di Taormina (1844); Vaduz Vienna, Liechtenstein.The Princely Collections.

Abraham Louis Rodolphe Ducros, La villa di Mecenate a Tivoli (1787-1793); Stourhead, The Hoare Collection (The National Trust).


Louis Gauffier, La valle dell’Arno dal Paradiso di Vallombrosa (1791); Filadelfia, Philadelphia Museum of Art.

L’esaltante scoperta delle rovine, dopo l’emozionante esperienza della Città eterna, segue nuove rotte che portano nella campagna romana e nei luoghi del Lazio, come Tivoli, sino alla rivelazione, nei siti panoramici e archeologici della Campania, di una nuova dimensione dell’antico. Da una parte quella del vissuto quotidiano emersa dagli scavi di Ercolano e Pompei, e dall’altro la rivelazione della sublime e primitiva maestà dell’architettura dorica con la scoperta dei templi di Paestum e di quelli della Sicilia, dove si spingono Goethe e i viaggiatori più audaci.


Tra le loro imponenti rovine sembrano davvero riemergere gli antichi miti. I due monumentali volumi del Voyage Pittoresque ou Description des Royaumes de Naples et de Sicilie, allestiti dall’Abbé de Saint Non con una squadra di disegnatori operanti sui luoghi e coordinati da Dominique Vivant Denon, vennero pubblicati a Parigi tra il 1781 e il 1786. Rappresentano, nella ricchezza dei materiali esplorati dal vero e documentati visivamente, tra i paesaggi, gli antichi monumenti e i costumi popolari, una sorta di summa enciclopedica delle meraviglie dell’Italia mediterranea dove natura, storia e vita si rivelano in una mirabile sintesi.


Dai dipinti a olio alle opere su carta resta il fatto che il Grand Tour e le esigenze dei collezionisti stranieri hanno determinato la crescita esponenziale e ampliato gli orizzonti di generi come la veduta e il paesaggio, ora oggetto di una sperimentazione prima mai vista. 

Jean Baptiste Camille Corot, La Cervara, campagna di Roma (1830-1831); Cleveland, Cleveland Museum of Art.


John Robert Cozens, Cetara nel golfo di Salerno (1790); Washington, National Gallery of Art.

L’ampiezza del repertorio del vedutista contemporaneo e la funzione conoscitiva del paesaggio veniva ricollegata alla varietà, che, come teorizzerà Francesco Milizia nel suo Dizionario delle belle arti del disegno (1797), «cresce colla varietà de’ suoli, de’ sassi, delle rocce, e degli alberi diversi, e molto più colla diversità delle fabbriche antiche e moderne, rustiche e signorili, delle ruine, de’ monumenti, frammisti in qua, e in là, e intersecati da acque e ruscelli, in fonti, in fiumi, in laghi, in mari con vedute di navi e di scogli». Tenendo conto di tutte queste possibilità l’immagine dell’Italia transitò attraverso le vedute, sempre molto richieste di Roma, di Paestum, di Benevento e di tutte le località famose per la presenza delle vestigia dei monumenti antichi, e dipinti dove prevaleva invece un nuovo particolarissimo interesse paesaggistico rispetto all’elemento archeologico. Si tratta dei paesaggi, tra il Lazio e il Meridione, prescelti perché consacrati dalla letteratura classica, in particolare Orazio e Virgilio. Il loro fascino derivava dall’essere rimasti intatti in una bellezza e in un ambiente nemmeno sfiorati dalla modernità.


Vi si cimentarono soprattutto i paesisti stranieri come Richard Wilson, Joseph Wright of Derby, Jakob Philipp Hackert, Louis Gauffier, Nicolas Didier Boguet, Jean Joseph Xavier Bidauld, e tanti altri con una continuità che arriverà sino all’Ottocento del paesaggio lirico di Corot. Il modello seguito per rendere la solennità e la suggestione astorica di queste località fu soprattutto quello del paesaggio ideale, seguendo la tradizione di Lorrain, aggiornata attraverso una resa otticamente più persuasiva del reale.

Pierre Jacques Volaire, Eruzione del Vesuvio alla luce della luna (1774); Parigi, Ministère de la Culture, Direction des Patrimoines, Caisse Nationale des Monuments Historiques et des Sites. Dopo essere stato accolto nell’Accademia di San Luca a Roma, Volaire si trasferì nel 1769 a Napoli dove si specializzò in vedute panoramiche, molto richieste dai viaggiatori e dai collezionisti che volevano ricordare una delle esperienze più intense del viaggio in Italia. Rappresentavano il Vesuvio in eruzione durante le notti rischiarate dalla luce fredda della luna che, spuntando dalle nuvole e specchiandosi nelle acque immobili del golfo, faceva un suggestivo contrasto con i caldi bagliori della lava che scendeva dalla cima del vulcano. Volaire puntò sugli effetti scenografici, diversamente da altri vedutisti che, come Wright of Derby, Hackert e Wutky, rappresentarono con rigore scientifico il fenomeno.


Michael Wutky, Eruzione del Vesuvio (1782-1785 circa); Vienna, Akademie der bildenden Künste, Gemäldegalerie.

In altri tipi di vedute prevalse un nuovo spirito di osservazione della natura e delle sue manifestazioni, anche le più estreme. Come nelle vedute con i monumenti antichi prevalevano dei soggetti ricorrenti, così tra i siti naturali divennero alla moda quelli, i più visitati, dove la spettacolarità panoramica e la potenza delle manifestazioni della forza della natura suscitavano i sentimenti della sorpresa e del sublime, in particolare le cascate e il Vesuvio in eruzione. Il grande vulcano divenne una vera e propria icona dell’Italia, mentre tutto il mondo civile seguiva con morbosa curiosità lo scatenarsi della sua violenza cosmica. Rispetto all’approccio più scientifico di Wright of Derby e dell’austriaco Michael Wutki, ritroviamo un forte compiacimento per il versante più spettacolare del fenomeno nel francese Pierre Jacques Volaire che, da vero e proprio specialista, costruì dal 1769 al 1802 la sua fortuna a Napoli sulla rappresentazione di questo soggetto, naturalmente tra i più richiesti dai viaggiatori stranieri.


Ma la veduta seguì le strade più sorprendenti, alla riscoperta dei luoghi e di diverse modalità di rappresentazione, misurandosi con l’analisi della luce e degli effetti atmosferici. I primi a esplorare questi nuovi confini della visione furono i pittori discesi dall’Inghilterra e quindi aggiornati sulle teorie di Newton, come Wright of Derby, John Robert Cozens, Francis Towne, Thomas Jones. Jacob More, ricercato e più pagato di un pittore di storia, si è autocelebrato nel monumentale autoritratto inviato nel 1783 alle Gallerie fiorentine. L’immagine rimanda anche alla fama acquistata come ideatore di giardini all’ inglese, in particolare quello di villa Borghese a Roma, che sarà scelto come sfondo per i ritratti di viaggiatori e collezionisti. Indimenticabile quello di Hugh Douglas Hamilton dove il leggendario lord Bristol compare insieme alla giovanissima nipote.


Ma il protagonista assoluto nuova della pittura di paesaggio, sia per la sua preparazione teorica che per il rapporto speciale che ebbe con Goethe, è stato Hackert che arrivato a Roma nel 1768 si accaparrò subito una prestigiosa clientela, creando i presupposti per il suo trasferimento a Napoli dove venne nominato nel 1786 pittore di corte e incaricato di documentare con le sue vedute, la monumentale serie dei Porti del Regno destinata alla reggia di Caserta, i siti più belli, celebrando la felice natura di quei luoghi e una nuova prosperità conseguita grazie alle iniziative intraprese dalla monarchia con gli innumerevoli interventi sul territorio.

Jacob More, Autoritratto (1783); Firenze, Gallerie degli Uffizi. Ammirato da Canova, Goethe e Reynolds, More è stato uno dei pittori di paesaggio più richiesti, e risulta il più pagato, tra la fitta schiera degli stranieri che operarono in Italia al seguito degli aristocratici del Grand Tour. In questo autoritratto monumentale, che ammesso nella raccolta degli Uffizi sanciva la sua fama, l’artista si è raffigurato al lavoro all’ombra di alberi secolari, mentre sullo sfondo appare l’ingresso della grotta di Nettuno a Tivoli, che era uno dei luoghi prediletti dai viaggiatori. Ammesso nel 1781 alla prestigiosa Accademia di San Luca a Roma, More fu apprezzato anche come progettista di giardini all’inglese, allora molto richiesti, tra cui quello di villa Borghese a Roma.


Anton Raphael Mengs, Ritratto allegorico di James Caulfeild con il busto di Palladio (1756-1758); Praga, Národní Galerie.

GRAND TOUR
GRAND TOUR
Fernando Mazzocca
Il fenomeno del Grand Tour inizia a caratterizzare la vita culturale europea già a partire dal XV secolo, per arrivare al suo apice nel Settecento. Si tratta di un viaggio di apprendimento, quasi di iniziazione, che i giovani di buona famiglia compiono in Italia alla ricerca delle vestigia di quelle antiche civiltà di cui la Penisola è stata teatro. Questi novelli pellegrini, al contrario dei loro predecessori medievali che andavano in cerca di reliquie, vogliono arricchire lo spirito e l’intelletto oltre che l’anima, dando luogo a viaggi indimenticabili, a volte avventurosi per chi li compiva. Abbacinati da templi, chiese e città d’arte, ma anche dalle suggestioni di splendidi paesaggi, i rampolli dell’aristocrazia vivono un’esperienza che ha nutrito gli sviluppi dell’arte europea per alcuni secoli, quando l’Italia era un modello.