LE CAPITALI DEL GRAND TOUR

Anche se il mito dell’Italia è concentrato principalmente su Roma, identificata soprattutto per il valore dell’antico che sta alla base dell’identità dell’Occidente, questo primato è condiviso con le “cento città” che, per la loro origine quasi sempre radicata nell’antichità, per la varietà dei loro monumenti o l’eccezionalità della loro posizione panoramica, meritano una sosta.

Ma oltre alla Città eterna, sono state Firenze, Napoli e Venezia le vere capitali del Grand Tour, in quanto vi si svilupparono una serie di relazioni, una cultura e delle manifestazioni artistiche legate indissolubilmente proprio a questo fenomeno. Si possono dunque identificare una produzione intellettuale, una vera e propria arte e un gusto identificabili sotto il segno del Grand Tour.


Firenze

La prima città in cui il viaggiatore, arrivato in Italia dalle Alpi, o sbarcato a Genova o a Livorno, si trattiene più a lungo è la rinascimentale Firenze, capitale del Granducato di Toscana, governato dai Medici sino al 1737, e poi passato, quando l’illustre casato si era estinto, agli Asburgo Lorena, tra cui si distinse Pietro Leopoldo, figlio dell’imperatrice Maria Teresa, per la sua politica illuminata e per il suo mecenatismo, mirato alla promozione delle arti maggiori quanto delle manifatture artistiche. Firenze era famosa e visitata soprattutto per la grande collezione di antichità dei Medici, esposta nelle Gallerie degli Uffizi, e straordinariamente arricchita dopo il progressivo trasferimento, voluto da Pietro Leopoldo e terminato nel 1787, delle splendide statue conservate nella villa Medici a Roma. Nel grande museo fiorentino i visitatori, ammessi ogni mattina, potevano «conversare con divinità di marmo e imperatori pietrificati», capolavori ammiratissimi come la Venerel’Arrotino, i Lottatori, il Fauno danzante, circondati dai più stupefacenti dipinti del XVI e del XVII secolo.

I custodi delle Gallerie riservavano come la più ghiotta attrattiva «la magnifica sala ottagonale detta Tribuna che assomiglia a un tempietto abitato dagli dei», come osservava Edward Wright in Some Observations Made Travelling through France and Italy in the Years 1720, 1721 and 1722, uno dei resoconti allora utilizzati dai viaggiatori pubblicato nel 1730. Là si poteva ammirare in primo luogo la famosissima Venere dei Medici, che i conoscitori consideravano come uno dei più elevati modelli di bellezza, legata alla perfezione delle sue proporzioni. Poi i viaggiatori avevano imparato ad apprezzare, oltre alle antichità, anche i magnifici dipinti, tra cui la Venere di Urbino di Tiziano. Questi due capolavori compaiono, al centro dell’attenzione dei personaggi che animano la scena, nel quadro La Tribuna degli Uffizi, eseguito a Firenze tra il 1772 e il 1777 dal pittore di origine tedesca, ma naturalizzato in Inghilterra e protetto dalla corte, Johann Zoffany. Commissionato dalla regina Carlotta, è un’opera originalissima, una sorta di manifesto del Grand Tour anche per le relazioni che documenta. Tra i molti personaggi che affollano il quadro, quasi come turisti, compare l’autore che si è autoritratto a sinistra mentre mostra a un famoso collezionista, lord Cowper, una Madonna col Bambino di Raffaello (oggi a Washington, National Gallery of Art), che lui comprerà per farne dono a re Giorgio III d’Inghilterra con la speranza di ottenere un titolo nobiliare più elevato.


In questo dipinto, che non sembra rappresentare un fatto reale ma piuttosto una visione ideale, compaiono poi altri due protagonisti della vita a Firenze e dell’ambiente attorno ai viaggiatori stranieri in quegli anni. Si tratta di Horace Mann, rappresentato in piedi in primo piano mentre ascolta l’amico Thomas Patch che confronta i meriti della Venere tizianesca con quelli dell’antico gruppo scultoreo dei Lottatori. Mann, nominato residente britannico a Firenze nel 1740 e successivamente inviato straordinario e ministro plenipotenziario, era un punto di riferimento, come se ne incontravano anche in altre città italiane, importante per i viaggiatori che arrivavano a Firenze. Li consigliava su cosa ammirare, cosa acquistare, anche se per Edward Gibbon la sua «principale attività fu quella di intrattenere gli inglesi alla sua ospitale tavola». L’altro grande interlocutore per la folta comunità straniera che transitava dalla città era Patch, grande esperto di fisiognomica e fatto allora non scontato dell’arte del Quattrocento, che si guadagnava da vivere, oltre che come mercante di antichità e degli antichi maestri, con le sue belle vedute di Firenze e caricature di gruppo, due generi allora molto richiesti dai turisti.


Le sue vedute di Firenze, allora accostate alle popolari acqueforti di Giuseppe Zocchi pubblicate per la prima volta nel 1744, andavano incontro alle esigenze dei viaggiatori più facoltosi che amavano acquistare questi souvenir dei luoghi visitati. Patch nei suoi dipinti panoramici, caratterizzati da una fedeltà topografica ma anche da una forte sensibilità atmosferica, ha rappresentato diversi scorci di Firenze, inquadrata dall’Arno o, come nel caso del dipinto riprodotto in apertura di capitolo, dall’alto, dal colle di Bellosguardo, rendendo riconoscibili tutti gli edifici più importanti della città, da sinistra a destra: San Lorenzo, il duomo con il campanile, Palazzo vecchio e palazzo Pitti. Si trattava dei monumenti più visitati insieme all’Opificio delle pietre dure e agli Uffizi.


A completare la panoramica degli inglesi

a Firenze va ricordato, anche lui celebrato come abbiamo visto nella Tribuna di Zoffany, lord Cowper che, innamoratosi della marchesa Corsi, si era rifiutato di tornare in Inghilterra. Eccentrico, arrogante, dilettante di musica e scienza, aveva i mezzi per coltivare le sue passioni, per cui commissionò opere ad Anton Raphael Mengs, grande protagonista del neoclassicismo, acquistò i quadri degli artisti di passaggio a Firenze, procurando loro il permesso di eseguire copie dei capolavori delle Gallerie e convincendo le autorità ad acquistare i loro autoritratti per la celebre collezione degli Uffizi. Fu con l’aiuto di Zoffany che riuscì a formare una straordinaria collezione di dipinti antichi, tra cui opere di Raffaello, Dolci, Fra Bartolomeo e Pontormo.


Thomas Patch, Veduta di Firenze da Bellosguardo (17551760); Firenze, Collezione Ente Cassa di risparmio di Firenze.

Johann Zoffany, La Tribuna degli Uffizi (1772-1777); Windsor Castle, The Royal Collection. Questo dipinto, che è una sorta di manifesto del Grand Tour, eseguito su commissione della regina Carlotta d’Inghilterra, mostra un gruppo di viaggiatori e collezionisti stranieri in visita alla sala circolare degli Uffizi chiamata la Tribuna che raccoglieva le opere più significative del museo, tra statue antiche e dipinti del Rinascimento tutti perfettamente individuabili. Nella tela si riconoscono il pittore stesso, l’ambasciatore Horace Mann, il pittore Thomas Patch e il grande collezionista lord Cowper, che furono personaggi di riferimento per gli aristocratici inglesi in visita a Firenze.

Roma

Ma la meta principale del Grand Tour, solitamente raggiunta dopo la sosta a Firenze, rimaneva Roma, capitale dell’antichità e della cristianità, che rievocava nelle sue imponenti rovine la grandezza perduta, quando aveva dominato il mondo. I viaggiatori, cui era familiare la sua storia, ricevevano una forte impressione, come emerge dal ricordo del grande storico Edward Gibbon, l’autore di un’opera fondamentale nell’alimentare il mito della romanità, The History of the Decline and Fall of the Roma Empire (1776-1788): «A distanza di venticinque anni non riesco né a scordare né ad esprimere le forti emozioni che agitarono la mia mente la prima volta che varcai le mura della Città Eterna. Dopo una notte insonne percorsi con passo orgoglioso le rovine del Foro; ogni luogo memorabile dove Romolo aveva sostato, Tullio aveva parlato o Cesare era caduto, si presentava al mio sguardo; soltanto dopo aver sprecato, o essermi goduto, parecchi giorni di entusiastica intossicazione, potei osservare quei siti con occhio più freddo e attento».

Il senso di vertigine proveniente da quelle superbe vestigia del passato, che incombevano allora come oggi sulla Roma settecentesca, è ben restituito da quelle che restano le immagini in assoluto più significative e conosciute della Città eterna, la imponente serie delle centotrentacinque acqueforti intitolate Vedute di Roma, pubblicate singolarmente o a piccoli gruppi dalla fine del quinto decennio del XVIII secolo alla sua morte, dall’architetto di origine veneziana Giovanni Battista Piranesi. Costituiscono le testimonianze tra le più fedeli ed efficaci della maestà dell’antica Roma, diffuse dal Grand Tour, cui sono strettamente collegate, in tutto il mondo occidentale. Hanno esercitato una decisiva influenza sulla formazione di una concezione romantica dell’antichità classica, condizionando le nostre idee sulla civiltà romana. Si può dire che hanno rivoluzionato la veduta convenzionale, riflettendo l’evoluzione artistica e intellettuale del loro autore, architetto e decoratore, archeologo, polemista, ma soprattutto illustratore visionario e fantasioso restauratore di antichità. Una vera leggenda tra gli stranieri che hanno frequentato la città.


Giovanni Paolo Panini, Capriccio con il Colosseo, la Colonna Traiana e l’ Arco di Costantino (1757).

Roma nel Settecento, racchiusa all’interno delle mura aureliane, appariva con i suoi centocinquantamila abitanti un borgo rispetto all’imponente metropoli che ai tempi di Augusto superava un milione di abitanti. Eppure, a partire dal XV secolo, i pontefici che si erano avvicendati sulla cattedra di Pietro avevano cercato di far rivivere l’antica grandezza creando un tracciato monumentale. Nel complesso sistema di percorsi di pellegrinaggio dell’epoca di papa Sisto V, la cui funzione era di collegare le sette basiliche romane, si erano inseriti nel Seicento i grandiosi monumenti e gli spazi barocchi ideati da Bernini, mentre agli inizi del Settecento si erano aggiunti le facciate di Santa Maria Maggiore e del Laterano, la grandiosa Fontana di Trevi, la scenografica scalinata di Trinità dei monti e tutta una serie di grandi edifici pubblici come il Palazzo della consulta adiacente al Quirinale.


Insieme a Piranesi, il maggiore testimone e interprete un artista anche lui molto apprezzato dai viaggiatori e collezionisti stranieri della straordinaria unicità di questa città millenaria è stato il pittore piacentino Giovanni Paolo Panini. Sicuramente il principale vedutista allora attivo a Roma, dimostrò il meglio del suo estro nel genere molto richiesto delle fantasie architettoniche, o capricci. Si trattava di visioni ideali che fornivano ai viaggiatori, cui erano destinate, una rappresentazione antologica e simultanea dei luoghi e dei monumenti più famosi, abbinati ogni volta in maniera arbitraria, con una capacità inventiva sorprendente. Alla base c’era, come nel caso di Piranesi, una vera competenza e preparazione nell’ambito dell’architettura. Panini era stato professore di prospettiva alla prestigiosa Accademia di Francia, allora a palazzo Mancini in via del Corso, dove ebbe l’occasione di entrare in contatto con collezionisti influenti come i due ambasciatori francesi presso la Santa sede, il cardinale di Polignac e il duca di Choiseul.

Fu quest’ultimo, nel periodo in cui fu in carica dal 1754 al 1757, a commissionargli quattro dipinti importanti tra cui due grandi vedute immaginarie, che poi saranno replicate, intitolate emblematicamente Roma antica Roma moderna. Lo spazio di una sorta di maestosa basilica classica appare tutto occupato dalle vedute dei più famosi monumenti romani, disposte come in una fitta quadreria: dalle Terme di Diocleziano al Tempio della sibilla a Tivoli, dal Colosseo alla basilica di Massenzio, dal Pantheon alla Colonna traiana, e poi tanti altri in una sequenza che appare infinita. Mentre tra le sculture in primo piano, a completare questa straordinaria antologia dell’arte antica, si notano l’Ercole Farnese, il Galata morente, il Sileno con il piccolo Bacco, lo Spinario, il Vaso Borghese, il Laocoonte, l’Apollo del Belvedere e il Gladiatore Borghese. Mentre un gruppo di conoscitori osserva un artista che sta eseguendo una copia del famoso encausto delle Nozze aldobrandine. Lo stesso impianto caratterizza il pendant Roma moderna, stupefacente rassegna delle più recenti imprese architettoniche e scultoree realizzate dai pontefici, come la Fontana dei quattro fiumi con Sant’Agnese, la cupola di Sant’Ivo, il Quirinale, la Fontana del tritone e palazzo Barberini, la Fontana di Trevi, la scalinata di Trinità dei monti, e molti altri luoghi e monumenti tutti rappresentati in forma di vedute riprodotte dentro un dipinto. 

I due capolavori di Panini sono il manifesto della Roma che nell’Età dei lumi si pone a modello per il mondo occidentale. Infatti, a partire dagli anni Quaranta del Settecento, con il pontificato del bolognese Benedetto XIV, spirò un’aria di rinnovamento che vide uno straordinario fiorire di studi in ambito filosofico, medico e scientifico, ma anche per quanto riguarda l’antichità indagata con accuratezza filologica e spirito critico. Sono gli anni in cui i grandi pontefici colti fondano le prime raccolte di antichità aperte al pubblico: nel 1734 in Campidoglio i Musei capitolini, nel 1771 in Vaticano, nei Sacri palazzi, Il Museo pio clementino, ricollegandosi così all’eredità dei grandi papi del Rinascimento. Come notava Cicognara, nel testo prima citato: «Non languirono questi studj sotto Clemente XIV, poiché a lui si deve il Museo Clementino, e d’essersi servito a tal uopo d’uno de’ più begli ingegni viventi, versatissimo nelle materie antiquarie, il signor Giovan Battista Visconti; e a questo pontefice debbesi la bella collezione degli antichi papiri illustrati dal dottissimo monsignor Marini, e l’insigne pittura della stanza che li raccoglie, elaboratissimo lavoro di Raffaello Mengs. Una folla di dotti e illustratori [...] occupavansi in dare tutta la celebrità a’ monumenti romani».


Abraham-Louis- Rodolphe Ducros, Il granduca Paolo e il suo seguito nel Foro romano (1782 circa); San Pietroburgo, Pavlovsk Museum.

Quindi tra i nuovi musei e le tradizionali collezioni delle famiglie principesche dei Colonna, dei Massimo, degli Orsini e dei discendenti dei “nipoti” dei papi, come i Chigi, i Pamphilj, i Corsini e i Borghese, che avevano proprio allora risistemato in una magnifica villa la loro strepitosa raccolta, gli amatori stranieri potevano avere una esperienza senza pari delle opere che avevano determinato nei secoli i canoni del buon gusto. Quella bellezza ideale che allora era rilanciata dagli scritti di Johann Winckelmann, il grande teorico del neoclassicismo, che fu bibliotecario e quindi conservatore delle magnifiche collezioni del cardinale Alessandro Albani, ospitate in una grandiosa villa fatta progettare da Carlo Marchionni appena fuori delle mura aureliane, sulla via Salaria. Questa collezione, formata grazie agli scavi promossi dal cardinale, era improntata a una nuova sensibilità anche nell’originale e raffinato allestimento che servì di modello per molte gallerie private di tutta Europa. Del resto villa Albani, con il magnifico salone sul cui soffitto risplendeva dal 1761 il Parnaso affrescato da Mengs come il manifesto del neoclassicismo, era una meta immancabile per i viaggiatori. Il notevole flusso di visitatori stranieri ebbe una notevolissima ricaduta sull’economia della Città eterna, in quanto fece sorgere una vera e propria industria dove oltre alle funzioni basilari, come gli alberghi, i trasporti e i ciceroni, fu impiegato un grande numero di artisti, vedutisti, ritrattisti, incisori, restauratori, artefici e artigiani, impegnati questi ultimi nella produzione di souvenir d’ogni tipo, realizzati con tecniche diverse, dal bronzetto al micromosaico, dai biscuit alle pietre incise. Oggetti che hanno diffuso in tutto il mondo la passione dell’antico e della mitologia, sedimentandoli nell’immaginario collettivo.

Napoli
Spingendosi verso il Sud, il Grand Tour raggiungeva Napoli, la capitale del regno passato nel 1734 dall’Austria ai Borbone. La città più popolosa d’Italia divenne sotto un sovrano illuminato come Carlo III e il suo successore dopo il trasferimento sul trono di Spagna, Ferdinando IV, una delle grandi capitali europee. Anche se per l’affollamento e lo stile di vita della plebe poté apparire a Goethe un «paradiso abitato da diavoli», la città incantava per lo splendore del suo ambiente naturale, distesa tra il golfo e il Vesuvio, per la ricchezza delle sue chiese e dei suoi palazzi, e anche perché legata alla memoria dell’antico in luoghi magici come la tomba di Virgilio a Posillipo, la Grotta, cioè il tunnel scavato ai tempi di Augusto che la collegava a Pozzuoli. Nei dintorni poi si trovavano siti leggendari come il Tempio della sibilla cumana o il misterioso lago d’Averno, da dove Enea era disceso agli Inferi.
Giambattista Lusieri, Napoli dalla casa di sir William Hamilton a Pizzofalcone (Palazzo Sessa), (1791); Los Angeles, J. Paul Getty Museum.

Ma tutta questa visione dell’antico legata alla letteratura svaniva di fronte alla rivelazione che aveva rappresentato la scoperta, rispettivamente nel 1731 e nel 1748, delle antiche città di Ercolano e Pompei, sepolte dalla lava del Vesuvio nel 79 d.C., catastrofe di cui rimaneva la testimonianza nelle Lettere di Plinio il Giovane. Cicognara ci restituisce molto bene l’entusiasmo e l’impatto di questo ritrovamento che costituì uno dei motivi principali per raggiungere Napoli, anche se poi furono molte le difficoltà, per i viaggiatori non autorizzati, nel visitare gli scavi. Torniamo a Cicognara per il quale la «scoperta della città di Ercolano, che verso la metà del secolo rivide la luce, restituendoci più conservati i monumenti non solo delle arti, ma ancora gli usi della vita, rimasti sepolti dall’anno 79 dell’era nostra, cioè per il corso di quasi diciassette secoli, portò un entusiasmo di felici innovazioni e curiosità, una brama d’imitazioni, uno studiare di moltissimi dotti, un proteggere e un animar di chiarissimi mecenati che veramente parve risvegliare il buon gusto sopito dell’arte a nuova esistenza».


La scoperta ebbe una formidabile risonanza, per cui «tutti i letterati», prosegue Cicognara «e gli antiquarj corsero in folla alla corte di Carlo III per riconoscere gli scavi e le opere, e per esaminare, commentare, studiare le tante singolarità. Il buon re formò a Portici un museo dove raccolse le rarità di Ercolano, di Stabbia, e di Pompei; e il marchese Tannucci creò un’accademia di belle lettere destinata ad occuparsi degli oggetti dissotterrati».


Il riferimento è a un formidabile uomo politico, il segretario di Stato del Regno, Bernardo Tannucci che nel 1755 aveva fondato l’Accademia ercolanense per studiare, pubblicare e illustrare le opere recuperate dalle città sepolte. Gli otto magnifici volumi di incisioni Le antichità di Ercolano esposte, pubblicati tra il 1757 e il 1792, furoreggiarono tra i collezionisti e gli artisti, e costituirono un punto di riferimento per i viaggiatori colti. Ma, come ricorda ancora Cicognara, esercitarono una influenza decisiva su «ciò che si chiama oggetti minori delle arti, come le suppellettili, le mobilie, le decorazioni domestiche ed interne degli edificj; e alcuni scultori, gli intagliatori di gemme, i pittori, e cesellatori imitarono le danzatrici, le centauresse, e le altre pitture ercolanensi: li candelabri, le lucerne, e i bronzi servirono di modello ad ogni costruzione più moderna d’ornamenti e d’utensili».

Si tratta della vasta produzione di arredi e oggetti d’ arte di gusto pompeiano, rivolti a una clientela formata in gran parte dai viaggiatori e dai collezionisti stranieri. Di straordinaria qualità le porcellane realizzate dalla Reale fabbrica di Napoli, diretta dall’archeologo ed erudito toscano Domenico Venuti. I pezzi più ambiti furono i magnifici biscuit modellati dal geniale Filippo Tagliolini che riproducevano le statue scoperte a Pompei e quelle delle collezioni farnesiane trasferite da Roma a Napoli. Formidabili veicoli per diffondere il gusto dell’antico, rivaleggiavano con i bronzetti prodotti a Roma da Luigi Valadier, da Giacomo e Giovanni Zoffoli, da Francesco Righetti o con gli altrettanto incantevoli biscuit di Giovanni Volpato, amico e sostenitore di Canova.


La vivace scena cosmopolita napoletana era animata non solo dalla presenza dei molti artisti stranieri, tra cui Angelica Kauffmann, Élisabeth Vigée Le Brun, Jakob Philipp Hackert, Heinrich Friedrich Füger, Johann Heinrich Tischbein, attirati dalla corte e operanti nei grandi cantieri delle regge di Caserta, di Capodimonte e di Portici; ma anche da quella, meno clamorosa, ma forse più incisiva, e sicuramente più innovativa di coloro, soprattutto vedutisti e pittori di paesaggio di diversa nazionalità, come Pierre Jacques Volaire, Joseph Wright of Derby, Thomas Jones, John Robert Cozens, Abraham Louis Rodolphe Ducros, Michael Wutky, Giovanni Battista Lusieri, che si muovevano al seguito dei viaggiatori più colti e facoltosi, di cui la città era divenuta una meta sempre più ambita. Il loro principale punto di riferimento fu un personaggio eccezionale, un vero e proprio simbolo del Grand Tour. Si tratta di William Hamilton, rappresentante dal 1764 al 1799 della Corona britannica e, di conseguenza, molto legato alla famiglia reale sulla cui condotta esercitò una forte influenza. Al suo peso politico corrispose un prestigio culturale, guadagnato attraverso le infinite relazioni e le importanti iniziative.


Palazzo Sessa, sotto Pizzofalcone, la sua principale residenza, fu il maggior centro di incontro in città tra artisti, intellettuali, scienziati, uomini di mondo e viaggiatori stranieri. Si trattava di un luogo magico, per la vertiginosa veduta panoramica a trecentosessanta gradi sul golfo, il cui fascino è restituito dall’eccezionale, anche per la dimensione raggiunta dai sei grandi fogli uniti tra loro, acquerello di Lusieri. Davvero formidabile per il nitore ottico e la precisione topografica con cui è riuscito a rendere l’incanto di uno dei posti più belli del mondo.


Jakob Philipp Hackert, Le rovine di Pompei (1799); Attingham Park, Shrewsbury, Shropshire, The Berwick Collection.

Antonio Joli, Interno del tempio di Nettuno a Paestum (1795); Caserta, Palazzo reale.

La vita di relazione che si svolgeva alla corte dell’ambasciatore inglese fu gestita in maniera impareggiabile anche con l’aiuto della giovane moglie bella e famosa, l’ex attrice Emma Hart, una delle grandi donne del secolo, amante degli artisti e soggetto prediletto, anche per i molteplici e sorprendenti travestimenti e attitudini in cui amava esibirsi, dai maggiori ritrattisti del tempo come Reynolds, la Kauffmann, la Vigée Le Brun, Tischbein, Gavin Hamilton, con il quale ebbe un rapporto davvero speciale. Amico e corrispondente di Reynolds, che ci ha lasciato un suo emblematico ritratto rappresentandolo sullo sfondo del Vesuvio e in tutto il suo prestigio di collezionista, William Hamilton ebbe un’inclinazione molto particolare che lo condusse a formare la più vasta raccolta allora esistente di vasi dipinti allora detti etruschi, ma in realtà greci, che, fatti riprodurre in magnifici volumi illustrati, avvicinarono il pubblico a una dimensione, prima poco nota, dell’arte antica e offrirono nuovi modelli alle arti decorative. Gli interessi naturalistici e scientifici lo spinsero poi verso i numerosi vedutisti e paesaggisti stranieri, attirati dallo splendore naturale della costa campana, che Hamilton ospitò, protesse e incoraggiò. Appassionato di vulcanologia, organizzò molte spedizioni al Vesuvio, diventato la meta più ambita dei viaggiatori, e fece eseguire da Pietro Fabris tutta una serie di vedute, riprese sul posto, delle eruzioni, delle particolarissime caratteristiche geologiche dei luoghi attorno al vulcano e della zona dei Campi Flegrei. Il volume in cui queste immagini furono raccolte, presentato a Londra nella sede della celebre Società dei dilettanti di cui Hamilton era membro, sarà destinato a un universale apprezzamento e diverrà un punto di riferimento per il viaggio a Napoli.

Venezia

Raggiunta di solito in carrozza da Bologna, ma anche più scenograficamente via acqua col burchiello da Padova costeggiando le magnifiche ville della riviera del Brenta, Venezia era la meta finale e immancabile del Grand Tour. Gli archivi veneziani conservano interminabili elenchi di viaggiatori, di ogni nazionalità, attirati dall’unicità della città, dalle occasioni mondane, dai teatri e dalle spettacolari feste pubbliche, perlopiù di carattere religioso o celebrativo, come la cerimonia dello Sposalizio col mare, dei fasti dell’antica Repubblica. Molti furono poi gli eventi organizzati in onore dei principali viaggiatori o di altri importanti visitatori, come la fastosa cena al teatro di San Beneto allestita nel 1782 in onore dei conti del Nord, lo pseudonimo sotto il quale viaggiarono il granduca Paolo Romanov, figlio di Caterina II e futuro zar Paolo I, e la colta moglie Maria Feodorovna. Ma fu a Roma, e non a Venezia, che l’anno precedente avevano frequentato gli artisti, commissionando loro sculture e dipinti che ricordassero il loro viaggio, come le vedute di Ducros della loro sosta tra le rovine del Foro e a Tivoli, in ammirazione delle grandiose cascate e della grotta di Nettuno.


Infatti, nonostante i moltissimi viaggiatori presenti a Venezia, non troviamo pittori stranieri al loro servizio, per ritrarli o fornir loro delle vedute, come avveniva a Firenze, Roma e Napoli. La produzione e il mercato delle vedute era interamente in mano ai pittori locali, imbattibili per il loro prestigio, come Luca Carlevarijs, Michele Marieschi, Bernardo Bellotto e, aldisopra di tutti, il grande Canaletto. Molti dipinti di quest’ultimo e degli altri vedutisti contemporanei, così come i disegni e stampe che rappresentavano la città, le feste e gli eventi, sono entrati nelle collezioni inglesi grazie a intermediari come l’impresario teatrale e mercante d’arte Owen McSwiney, residente a Venezia negli anni Venti e Trenta del Settecento; il celebre console Joseph Smith, che vi visse dal 1700 sino al 1770, anno della sua morte; John Strange, ambasciatore dal 1773 al 1788 e mecenate di Francesco Guardi. Ma forse il più importante mediatore fu il disegnatore, incisore e collezionista Anton Maria Zanetti il Vecchio che procurò ai grandi collezionisti stranieri i dipinti di Canaletto, Giuseppe Nogari, Giambattista Tiepolo, Francesco Zuccarelli, rendendo dunque ancora competitiva la pittura veneziana nel mondo, e alimentando nello stesso tempo il mito di una città unica.

GRAND TOUR
GRAND TOUR
Fernando Mazzocca
Il fenomeno del Grand Tour inizia a caratterizzare la vita culturale europea già a partire dal XV secolo, per arrivare al suo apice nel Settecento. Si tratta di un viaggio di apprendimento, quasi di iniziazione, che i giovani di buona famiglia compiono in Italia alla ricerca delle vestigia di quelle antiche civiltà di cui la Penisola è stata teatro. Questi novelli pellegrini, al contrario dei loro predecessori medievali che andavano in cerca di reliquie, vogliono arricchire lo spirito e l’intelletto oltre che l’anima, dando luogo a viaggi indimenticabili, a volte avventurosi per chi li compiva. Abbacinati da templi, chiese e città d’arte, ma anche dalle suggestioni di splendidi paesaggi, i rampolli dell’aristocrazia vivono un’esperienza che ha nutrito gli sviluppi dell’arte europea per alcuni secoli, quando l’Italia era un modello.