«IL GIGANTE DEI VINGT,‌
IL RUBENS DELLA MODERNITÀ,
IL CAPO DEI NUOVI-PITTORI»(1)

Artista duro, satirico, a tratti respingente, personalità controversa e introversa, già in vita, James Ensor, nonostante gli inizi difficili, le critiche durissime e i tanti rifiuti, entrerà nel pantheon nazionale, accanto ai giganti Van Eyck, Rubens e Van Dyck. 

Eancora oggi è stimato tra i più grandi, forse il più grande artista belga moderno, soprattutto per via della lettura modernista che ne è stata fatta nel corso del tempo(2): Ensor continuatore e rinnovatore della tradizione fiamminga, come impressionista, come proto-espressionista, quasi un esistenzialista, un anarchico, oppositore delle ideologie dominanti, persino un anticipatore delle avanguardie. Ad alcuni, soprattutto Wilhelm Fraenger e Marcel de Maeyer, dobbiamo l’individuazione di un Ensor nevrotico, schiavo delle proprie visioni e dei propri incubi, ossessionato dalle masse. A inizio Novecento le sue qualità visionarie furono esaltate dalla critica avanguardista e dagli intrecci internazionali, che includono anche Vittorio Pica(3), al quale dobbiamo il primo apprezzamento e poi la promozione dell’artista in Italia.


Ensor, tuttavia, non è un meteorite, non si eccettua dal proprio tempo; egli ha realizzato opere debitrici dell’impressionismo, del simbolismo, solidali col contesto storico-artistico europeo. Sebbene la citazione riportata nel titolo contenga un “quid” di sarcasmo, inavvertitamente è in buona parte vera. Inoltre, vissuto in Belgio in un periodo di forti cambiamenti sociali, politici e culturali, tra l’ascesa di Leopoldo II (1835-1909) e due guerre mondiali, Ensor ha raggiunto l’acme della sua rivoluzionarietà e delle sue qualità formali in un arco di tempo relativamente breve (1885-1895) se si pensa alla sua lunga vita, impiegando gli anni seguenti a rivedere motivi già collaudati e dedicandosi anche alla sua passione secondaria, la musica.


Esclusi i primi anni di formazione in cui, giovanissimo, visse a Bruxelles (1877-1880), Ensor trascorse la sua intera esistenza a Ostenda, sulla costa fiamminga. A lungo restò con la famiglia di origine, che includeva anche una nonna e una zia, e in seguito vivrà da solo, senza mai sposarsi, intrattenendo rapporti platonici con svariate donne, perlopiù già impegnate, complicati dalla cappa di riservatezza, mistero e dalle menzogne e dall’ironia che lo contraddistinguono. Pertanto, Mariette Rousseau (1850-1926) ed Emma Lambotte (1876-1963), sue sostenitrici e amiche di provata fedeltà, sembra si contentassero della sua arte e di ammirare il dandy alto, dinoccolato, dai riccioli neri sulla fronte bianchissima, mentre Augusta Boogaerts (1870-1951), la sua Sirena, rifiutata dalla madre dell’artista, forse a causa delle sue umili origini, gli rimarrà accanto fino alla fine, curando anche il suo legato, ma sempre a distanza: i due non vissero mai insieme. Gli artisti che bussavano alla sua porta venivano spesso accolti in modo glaciale, fu così per il concittadino Léon Spilliaert (1881-1946) e per il tedesco Erick Heckel (1883-1970), il quale tuttavia lo ritrasse al tempo del servizio ausiliare espletato in Belgio durante la prima guerra mondiale. A Bruxelles, inoltre, Ensor ebbe modo di frequentare la famiglia Rousseau ed Eugène Demolder (1862-1919), genero di Félicien Rops (1833-1898), che gli fornirono un forte sostegno in gioventù.


Per definirlo, bisogna riconoscere che egli è un artista controcorrente, incommensurabile rispetto al milieu artistico coevo e privo di allievi o eredi diretti. La sua influenza è stata sentita dall’espressionismo tedesco e dall’Informale. Rispetto ad altri suoi contemporanei resterà indenne da una formazione accademicamente adeguata né mai insegnerà. Avverso all’Accademia, così pure all’arte simbolista-idealista, alle allegorie, si impregnerà della lezione degli impressionisti, in un modo del tutto personale, traducendola, tramutandola alchemicamente in espressione.



Si relazionò in modo del tutto singolare con il contesto belga. Sfruttò senza remore le occasioni che gli capitarono ma, per indole e a seguito di una serie di smacchi, il suo animo si esacerbò e in numerose occasioni attaccò i suoi avversari, a volte per rivalsa circa i suoi fallimenti, altrimenti a seguito di fatti specifici: vedi l’assegnazione del prix de Rome a Jean Delville(4) nel 1895, che lo portò a definire «contorsioni epilettiche» i corpi dipinti dal collega simbolista, volendo usare una delle sue espressioni più neutre. Fu critico in modo icastico di Alfred Stevens (1823- 1906) in particolare e di tutta la confraternita dei pittori nel complesso, soprattutto per la loro arte “borghese”. Non risparmiò neanche l’americano James Whistler (1834-1903) o Claude Monet (1840-1926), a dispetto che fossero i pittori contemporanei più affini quanto a ricerca artistica, entrambi per la stessa ragione: lo studio e l’impiego della luce. Effettivamente, sebbene recalcitrasse ad ammetterlo pubblicamente, i due pittori costituiscono i due principali perni attorno ai quali ruotano le sue innovazioni tecniche. Non ci riferiamo per il momento alle sue novità iconografiche, ai contenuti irriverenti, ma al rapporto che il belga intrattenne con ciò che si andava sperimentando attorno a lui. Il desiderio di far valere il proprio primato su Monet relativamente alle ricerche luministiche è costante nei suoi scritti: «Il mio ingresso al sacro girone della luce pura si accentua certamente verso il 1879, come lo dimostrano le mie marine dell’epoca(5)», ma anche su Van Gogh e altri: «Come spiegare gli apprezzamenti di Lemonnier, Mauclair, ecc., poiché indicavo, trent’anni fa, molto prima di Vuillard, Bonnard, Van Gogh e i luministi, tutte le ricerche moderne, tutta l’influenza della luce, la liberazione della visione. Visione sensibile e visionaria, non indovinata dagli impressionisti francesi che sono rimasti degli spennellatori superficiali, imbevuti di ricette piuttosto tradizionali. Certamente Manet, Monet mostrano delle sensazioni, ma piuttosto ottuse! Invece il loro sforzo uniforme non permette di intravedere le scoperte decisive»(6). Per quanto riguarda Whistler, invece, sarà proprio la sua carica anarchica e rivoluzionaria, la sua libertà espressiva a determinare l’invidia di Ensor, il quale avrebbe voluto avocare a sé la dimensione eccentrica e la precedenza cronologica nei ritrovati formali. Tra i pochi risparmiati dalla sua penna, Gustave Courbet (1819-1877) e Henri de Braekeleer (1840-1888), e non a caso: la loro lezione realista costituisce un buon fondamento per i suoi primi dipinti e, inoltre, non gli potevano più far ombra, essendo deceduti da tempo.



La donna sofferente (1882); Parigi, Musée d’Orsay.


Uno degli studiosi più competenti dell’artista, Herwig Todts, nel 2018 ha dato alle stampe la sua tesi di dottorato, nella quale si discute il canone ensoriano, e il modernismo dell’artista, che lui valuta come «occasionale»(7), rivelandone la sua complessità stilistica e una qualche forma di incoerenza che contraddistinguerebbe il suo lavoro.


Si conferma la consapevolezza che Ensor, pur non essendo del tutto un isolato, ha perseguito autonomamente la sua strada, nella quale il superamento dell’impressionismo andava di pari passo con la riscoperta della pittura fiamminga, della satira inglese, e costituirà un modello non solo per l’espressionismo ma anche per i Nabis, in particolare per i dipinti di interni di Bonnard e Vuillard(8).


Per discutere, invece, di una possibile inclinazione al simbolismo da parte di Ensor, è necessario procedere con una serie di riflessioni. Tralasciando in questa sede la complessità del fenomeno, che non può essere definito un vero movimento, né uno stile specifico, ma è piuttosto una corrente, un momentoche ha occupato gli animi di larghi strati dell’arte europea nel ventennio 1880-1900, riteniamo di poter affermare che Ensor è stato solo sfiorato dal simbolismo. Anzi, egli non risparmiò agli artisti simbolisti aspre critiche, riguardanti le scelte stilistiche, i personaggi evanescenti, le espressioni affettate, i colori sbiaditi. Inoltre, per Ensor, lo studio della natura, dei suoi colori e della sua luce, resterà sempre un cardine, contrariamente alle poetiche simboliste che insistevano sull’uso antimimetico della pittura. In contraddizione con codesta linea maestra, alcune sue ricerche e iconografie sono ascrivibili a questo momento storico-artistico, secondo un orientamento venato di decadentismo, e per questa ragione molti studiosi hanno sbrigativamente arruolato l’artista tra i simbolisti. Sebbene un’iconografia non basti a motivare l’appartenenza a una corrente, la persistenza di scheletri, le maschere e le rappresentazioni fantastiche si inscrivono indubbiamente all’interno della “facies” più decadente del simbolismo.


Scheletri come simbolo dell’umana fragilità o “memento mori” costellano da sempre la storia dell’arte. A cambiare è naturalmente l’uso che dall’epoca romantica in poi ne viene fatto, ossia dapprima più letterario e in seguito più personalizzato, interiorizzato. In Ensor lo scheletro è elemento dissacrante, incarnazione si perdoni l’ossimoro dell’inconsistenza delle azioni umane, e con codesta intrusione irrituale il pittore a volte prende a bersaglio delle persone ben precise. Anche l’aura di mistero che sembra avvolgere alcuni dipinti, la malinconia che affiora dalle donne ritratte induce a ipotizzare un qualche ricorso al simbolismo, sia pure in forma criptica.

Nonostante ciò, col suo essere ancorato al mondo reale, non sognando né suggerendo un mondo alternativo, rifiutando simboli e allegorie, opponendosi energicamente a falsità e a ipocrisie, Ensor si palesa quale artista di vigoroso impegno sociale; mentre la sua tecnica pittorica si muove parallela alla linea degli impressionisti, soprattutto nella ricerca del massimo splendore luministico del colore.


Del controverso rapporto di James Ensor con le teorie e gli ambienti simbolisti, infine, parlano due dati: il lungo soggiorno a Ostenda, tra il 1886 e il 1887, da parte di Helena Blavatsky (1831-1891), celebre medium, scrittrice e viaggiatrice, fondatrice della teosofia. La donna abitava sul boulevard Iseghem, vicino a rue de Flandre, residenza della famiglia Ensor, ma non abbiamo notizia di un loro incontro e l’artista, fino a prova contraria, ignorò la Blavatsky nei suoi scritti; inoltre, nel 1938 Ensor scrisse la prefazione a un album di stampe di un artista tardo-simbolista, Jean-Jacques Gailliard (1890-1976), Vie de Swedenborg. Douze linogravures, ma senza commentare la dottrina esoterica swedenborghiana, dimostrando, al contrario, un freddo distacco. Nessun artista contemporaneo è stato risparmiato dalla penna di Ensor: dagli accademici ai simbolisti, dagli impressionisti ai pointillistes. Ma è lecito domandarsi se, oltre che conseguenza di un ego ipertrofico, le riserve di Ensor poggino su basi diverse. Condannando l’accademia, la modernità, ma anche la pittura fine a se stessa, Ensor stava forse esprimendo, all’inizio in modo non pienamente consapevole, il suo pensiero anarchico e libero. La pittura per lui non doveva essere l’effetto dello studio di forme ideali, ma espressione, passione, originalità e immaginazione contro banalità e piattezza. Sublime contro banale. Creatività e imperfezione al posto di ripetizione, metodo e compiutezza formale.


Ensor ha lasciato tantissimi scritti, lettere, articoli, pamphlet, discorsi ufficiali, nei quali ricorrono alcuni termini chiave come “luce”, “libertà” e “visione”. Quest’ultima non va letta in modo esoterico o simbolista: per Ensor la visione non è altro che il modo di guardare il mondo, una maniera che, come ha scritto lui stesso «si modifica osservando. La prima visione, quella volgare, è la linea semplice, secca, senza ricerca del colore. Il secondo momento è quello in cui l’occhio più allenato distingue i valori dei toni e le loro delicatezze […] l’ultima è quella in cui l’artista vede le sottigliezze e i numerosi giochi di luce, i suoi piani e le sue gravitazioni». Inoltre «queste ricerche progressive modificano la visione iniziale e la linea soffre e diventa secondaria» (9). La pittura secondo Ensor sarebbe dunque partita dalla linea gotica per arrivare alla luce moderna passando per il colore e il movimento tipici dell’arte del Rinascimento, luce moderna più difficile da capire e da distinguere perché l’occhio non è esercitato. Questo punto di vista non corrisponde tuttavia all’occhio impressionista, ma ha un valore più intellettuale, più ragionato, deve infatti essere frutto di una ricerca, ma non quella della perfezione o di un ideale alla maniera accademica. Al contrario, l’imperfezione ha un ruolo importante per Ensor, come si è già detto, perché figlia della libertà creatrice.


Una monografia sull’artista difficilmente potrebbe strutturarsi secondo l’ordine cro- nologico: non è del tutto corretto parlare di evoluzione storica o di cambiamenti radicali nella sua opera, in ragione di tale partito critico questo compendio della sua arte si articolerà prevalentemente secondo sezioni tematiche.


Infine: quante opere ha realizzato Ensor? Il catalogo ragionato elaborato da Xavier Tricot annovera ottocentocinquantadue dipinti(10), le incisioni, tra acqueforti, pun- tesecche e vernici molli, sono centotrentatré, mentre i disegni tantissimi: solo nei Musei reali di Anversa se ne contano seicento.


Cabina (1876), Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten.
Sebbene sia vissuto in un periodo ricco di fermenti artistici, Ensor non è riconducibile ad alcuna corrente in particolare. Rimase caustico verso i suoi colleghi, impressionisti, post impressionisti e simbolisti, custodendo il suo spirito anarchico e libero in arte così come nella vita privata.



ENSOR
ENSOR
Laura Fanti
James Ensor (Ostenda 1860-1949), figlio di un ingegnere inglese e di una negoziante fiamminga di Ostenda, comincia a interessarsi all’arte ancora molto giovane. Si iscrive all’Accademia di belle arti di Bruxelles ma non condivide il tradizionalismo dei colleghi. Lascia la capitale e torna nella città natale. Cerca sponde intellettuali nelle avanguardie del tempo, si ispira ai paesaggi della sua terra sul Mare del Nord, al simbolismo; ma soprattutto coltiva una corrisposta, profonda antipatia per i borghesi della sua città, idee anarchiche e un’invincibile tendenza a isolarsi. È attratto dalla vena grottesca di un suo grande conterraneo, Jheronimus Bosch, dal carnevale, dalle maschere e dal rifiuto della folla, vista come una minaccia. L’intera umanità gli fa orrore, e la raffigura spesso seguendo ossessivi schemi espressionisti. Recentemente Ostenda, come una sorta di risarcimento pacificatorio, ha trasformato la sua abitazione in museo.