I SOGGETTI FAVORITI

Non si può affrontare un discorso su un artista che è vissuto prevalentemente a Ostenda, senza esaminare il suo elemento imprescindibile, il mare.

Il mare e i paesaggi

Ensor amò in modo viscerale il mare del Nord, che gli ispirò numerose tele e disegni fin da adolescente: i suoi primi lavori datano infatti al 1873. Livido, piatto, grigio, distesa d’acqua che può apparire monotona a chi vive nel Mediterraneo, il mare di Ensor è laboratorio per lo studio della luce e di flussi di energia, ma secondo una lettura psicoanalitica il mare, anzi l’oceano, sarebbero anche il luogo in cui l’artista sperimenta un’unione simbolica con la madre(18).


Ensor dipinse spesso il mare in tempesta, dalle luci drammatizzate, degne dell’ultimo Turner e della musica di Wagner, entrambi molto amati dall’artista. A questo riguardo, in una lettera al poeta e scrittore Pol de Mont (1857-1931) scrisse: «Mi chiedete, signore, se ho una devozione particolare per tale o tal altro maestro […]. Rembrandt mi è piaciuto tantissimo inizialmente […] ma le mie simpatie sono andate, molto più tardi, a Goya e Turner. Fui affascinato dal trovare due maestri amanti della luce e della violenza» (19). E ancora in un discorso pronunciato per “La Flandre Littéraire”: «Quanto siete grandi, lodevoli inglesi. Tre vostri giganti dominano il mondo. Turner, precursore luminoso della moderna pittura francese».


Le sue marine giovanili sono dei timidi esercizi, dai quali sprigiona una forte individualità. È il caso di Cabina (1876), un piccolissimo olio su cartone, dipinto da un Ensor sedicenne, che nella sua essenzialità, quasi banalità, dimostra una volontà di lavorare su più piani, lo studio delle nuvole e del mare, certamente, ma già filtrati attraverso la propria personalità; l’artista ha lavorato infatti su una sorta di tensione psicologica: non sappiamo se nella cabina ci sia qualcuno o se sia stata abbandonata.


Il risultato è che chi guarda non legge il dipinto come una rappresentazione mimetica, ma come una trasposizione personale, che quasi intuisce e prefigura la pittura metafisica.

Conchiglie e crostacei (1889); Wuppertal, Von der Heydt Museum.


Conchiglie (1896); Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique.

Nei primi anni Ottanta Ensor dipinse soprattutto interni, come vedremo, mentre verso il 1885, e fino ai primi anni Novanta, contemporaneamente ai dipinti di maschere, alle opere satiriche, si dedicò a dipingere l’oceano. Inizialmente seguendo la maniera di Courbet, ma poi unendo allo studio realistico gli studi atmosferici di Turner e Constable. Non è tuttavia sempre semplice commentare né datare alcuni suoi paesaggi, soprattutto le marine, a causa della pratica del rimaneggiamento, tipica dell’artista. Così accade che in alcune marine, la figura di Cristo è stata introdotta probabilmente in un secondo momento, cosa che fa sì che ogni ricostruzione storica sia purtroppo falsata. Anche gli studiosi dell’artista si sono trovati a disagio nello studio di tali lavori e hanno concluso che per Ensor il soggetto non avesse importanza, affermazione che non è senz’altro veritiera. Uno dei dipinti più maturi del periodo è Cristo che cammina sulle acque (1885 circa). Quest’opera, dalla datazione oscillante, potrebbe essere stata lavorata a più riprese, e il Cristo introdotto dopo il 1885, quando Ensor iniziò ad appassionarsi e a usare in modo ossessivo la figura di Cristo. A ogni modo, sebbene l’utilizzo spatolato del colore derivi da Courbet, l’intrusione di toni più chiari di azzurro e rosa testimoniano di una ricerca più diretta alla luce. Disinvoltamente, Ensor rende irriconoscibile il mare, trasformato in una distesa di macchie cromatiche piuttosto scure con dei lampi di rosa ed altri colori pastello mentre il cielo, attraversato da un arcobaleno degli stessi colori dell’insolito mare, è costruito quasi geometricamente, come un puzzle di azzurri, denso e senza profondità.

Negli anni Novanta la tecnica e l’immaginazione dell’artista prendono ancor più forza e la ricerca luministica si afferma decisamente nei paesaggi. Di Cristo che calma una tempesta (1891) Ensor disse che rappresentava, nella sua essenza più profonda, «l’interno perlaceo di una conchiglia»(21), e questa frase viene strumentalizzata proprio da chi sostiene una lettura formalistica del suo lavoro. Indubbiamente la stesura circolare del colore, la prevalenza di verdi e di rosa fanno di questo dipinto uno dei più innovativi dell’artista, che sfida Turner quanto a luminosità e libertà espressiva. Non si dovrebbe tuttavia ignorare il fatto che anni prima della realizzazione del dipinto (1886 circa), Ensor aveva eseguito incisioni con lo stesso titolo e soggetto, e che il dipinto segue la serie di Le aureole del Cristo o le sensibilità della luce (1887) e il celebre Entrata. Dunque, studi formali sicuramente, ma non secondo una lettura anacronistica che interpreta Ensor come pittore moderno, avverso al soggetto e fautore di un “art pour l’art”. Ensor dipingeva solamente d’inverno, mentre da fine maggio a settembre lavorava nel negozio di famiglia, annoiandosi terribilmente, dunque il mare da lui rappresentato è principalmente un mare invernale. Quando invece ha rappresentato il mare d’estate, è stato solo per mostrare in modo impietoso e sarcastico le folle, come in Bagni a Ostenda (1890).


Il mare sono anche le conchiglie che la famiglia dell’artista vendeva nella propria bottega e che Ensor ha riprodotto nelle numerose nature morte. Un tempo custodi di essere viventi, le conchiglie diventano l’analogo marino degli scheletri umani così ricorrenti nel suo lavoro: vuote e inanimate, testimoniano anch’esse una mancanza, un’assenza. Un capolavoro di questo genere è Conchiglie (1896), dove il madreperla viene sprigionato dalle bizzarre, quasi eccentriche, conchiglie, e impregna lo spazio circostante, lavorato in modo simile al dipinto Cristo che calma una tempesta, di cui Ensor aveva appunto detto che rappresentava l’interno perlaceo di una conchiglia.


Teschi e fiori (1909); Hannover, Sprengel Museum.


Per Ensor le nature morte erano, diremmo quasi paradossalmente, banco di prova per il colore: «è nella natura morta che l’artista si dimostra un perfetto colorista»(22). Ne sono prova i dipinti realizzati dopo il 1906, come le varie versioni di Cineserie (1907) dove l’artista usa una vasta gamma di blu, o Teschi e fiori (1909), con la sua ricchezza caleidoscopica, fatta quasi soltanto di pigmenti puri, o anche la più tarda Natura morta con cavolo (1921) o tutte le nature morte con conchiglie dagli anni Dieci in poi, dove Ensor usa i colori madreperlacei che tanto prediligeva.


Oltre al mare, come soggetto pittorico emergeva anche la natura di terraferma, il paesaggio. Un paesaggio che si stava trasformando troppo velocemente in una Ostenda sempre più incline al turismo, prima borghese e poi di massa. Alla tutela del paesaggio e dei monumenti Ensor dedicò molti scritti; i danni inferti ai monumenti storici erano definiti crimini«de lèsebeauté», contro la bellezza, comparabili alla blasfemia. Egli fu dunque un grande difensore della natura si prodigò anche per la difesa degli animali e contro la vivisezione. Ensor l’irriverente, il sarcastico, il misogino, manifestò una forma di misticismo e di devota ammirazione solo per la natura, sebbene non ne parlasse mai esplicitamente in termini di un’entità sacra. D’altronde, a partire dalla metà dell’Ottocento il paesaggio è al centro di tutte le ricerche artistiche europee. Le ragioni sono numerose, alcune note e non se ne può fare una casistica completa; tuttavia, la nascita di un nuovo sistema dell’arte, la possibilità di viaggiare più estesamente e più agiatamente, la diffusione del “plein air” in pittura, contribuiscono a fare di questo genere, tanto disprezzato dall’Accademia, il “genere” per eccellenza del periodo. Paradossalmente non sarà nessuna delle motivazioni che abbiamo elencato a indurre James Ensor a dare largo campo alla pittura di paesaggio. Certamente il fatto che si trattasse di un’area da investigare, non accademica, lo ha incoraggiato, ma, come detto, le sue motivazioni avevano un altro ordine, di tipo più estetico-sensoriale. Le sue invettive contro la distruzione delle dune e delle rocce che avrebbe reso piatto il paesaggio rientrano in questa visione estetica.


A volte il titolo sembra un pretesto per una pittura che è pioggia di luce come in Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso terrestre, un dipinto del 1887 dalle grandi dimensioni (245 x 206 cm). I personaggi sono evanescenti, e alcuni sono riemersi solo dopo un recente restauro: in basso a destra sono ricomparse due figure, quasi spettatrici della scena. Questo dato naturalmente potrebbe contrastare la lettura di un’opera fatta di sola luce, oppure ci conferma che Ensor in questo periodo sta tentando di dare una lettura alternativa di temi biblici.

Gli interni

Dopo il mare, gli interni della propria casa costituiscono l’altro luogo privilegiato di Ensor. In nessun altro posto dipingerà se non sulla spiaggia o in casa. La casa come rifugio, certamente, ma anche come spazio per dare sfogo agli studi sulla luce. In base allo schiarirsi dei dipinti di interni si tende a dividere o far evolvere lo stile dell’artista, secondo una classica interpretazione dell’arte del periodo in pittura di tipo realista e pittura di stampo impressionista o neoimpressionista. Indubbiamente Ensor, non viaggiando molto, viveva specialmente nella propria abitazione, in particolare nel proprio atelier. Interni borghesi, ma anche intimità, riflessione sui propri interiori stati d’animo, come la recente storiografia ha messo in evidenza. Questo elemento ha fatto pensare a una possibile appartenenza di Ensor alla corrente simbolista.


Negli anni Ottanta Ensor, come abbiamo visto, espose con i gruppi d’avanguardia La Chrysalide e L’Essor, e in quelle sedi ha esposto proprio le sue opere di interni, in linea con le tendenze del momento, della pittura realista di Courbet (Ensor amava molto il Dopopranzo a Ornans di Courbet) e degli impressionisti.


Ensor si compiaceva nel voler essere un antesignano, un pioniere su tutto. Non solo nella poetica della luce ma anche nella pittura di interni, scrisse infatti di aver preceduto i Nabis Édouard Vuillard (1868-1940) e Pierre Bonnard (1867-1947), ma anche di ammirare molto Henri de Braekeeler. E potremmo anche dargli ragione: i Nabis iniziarono la loro poetica degli interni a partire dagli anni Novanta, sebbene sia difficile stabilire quanto debbano a Ensor, le cui opere circolarono poco in Francia. Solo nel 1898 verrà dedicato all’artista belga un numero speciale di “La Plume”, grazie all’intercessione di Demolder, che però lamenterà l’invio di sole opere grafiche. Contemporaneamente venne organizzata una mostra al Salon des Cent che, quanto a vendite, si dimostrerà fallimentare, dato che una sola incisione fu venduta, e che, tuttavia, ebbe una notevole risonanza presso la stampa francese e colpì gli intellettuali parigini, in particolare Jean Lorrain (1855-1906), i cui Monsieur de Phocas Histoires des masques contengono riferimenti alle stampe di Ensor viste a Parigi. A questa pubblicazione collaborarono importanti artisti e scrittori belgi tra cui Georges Lemmen, Camille Lemonnier, Maurice Maeterlinck, Constantin Meunier, Octave Maus ed Émile Verhaeren.


La mangiatrice di ostriche (1882); Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten. Rifiutato due volte, al Salon di Anversa e al Cercle littéraire e artistique di Bruxelles, questo capolavoro giovanile di Ensor sfida la pittura di storia raffigurando una scena di genere attraverso notevoli dimensioni (207 x 150 cm) ed è al tempo stesso banco di prova per ricerche spaziali e luministiche.


Gli interni sono anche la possibilità per Ensor di sfidare l’impressionismo e di oltrepassarlo. Tavole imbandite, pranzi all’aperto, che pure erano stati rappresentati ed esposti da Monet, da Berthe Morisot (1841-1895) o anche dall’italiano Giuseppe de Nittis (1846-1884), sono per il giovane pittore un’opportunità per attivare splendidamente luce e colore, trasparenze e riflessi. Ne è un magnifico esempio uno dei suoi primi capolavori, realizzato ad appena ventidue anni, La mangiatrice d’ostriche (1882). Il dipinto, recentemente restaurato, venne rifiutato al Salon di Anversa del 1882 pur risultando sul catalogo con il titolo Al paese dei colori e poi al Cercle artistique et littéraire di Bruxelles nel 1883. L’opera era particolarmente cara all’artista ed ebbe una storia controversa, nella quale a un certo punto entrò in gioco anche la città di Liegi: Ensor la lasciò in effetti in deposito all’Accademia cittadina finché nel 1907 alcuni consiglieri municipali ne proposero l’acquisto. Le autorità cittadine rifiutarono e gli preferirono un dipinto di Henri Evenepoel (1872-1899), criticando aspramente la sua opera, ritenendola volgare e immorale. Il rifiuto si inscrive in un contesto culturale in cui la classicità e l’accademismo contavano maggiormente per definire la qualità di un’opera d’arte, nonostante il XIX secolo fosse chiuso e ci trovassimo sulla soglia delle avanguardie storiche. Un’opera di grandi dimensioni come questa appariva inoltre come un affronto alla pittura di storia, ma in conclusione, per una nemesi storica, nel 1927 il dipinto venne acquistato dall’istituzione più ufficiale, il Museo reale di Anversa.

In questa tela il posto vuoto sembra essere quello del pittore, il quale, quasi alla stregua di un fotografo, ha interrotto il proprio pasto per ritrarre un momento privato della propria compagna, nella circostanza la sorella Mitche. Questo dipinto possiede delle qualità sinestetiche: non a caso Ensor lo considerava una “natura morta”. Malgrado il loro appellativo, “still life” o nature morte, i lavori con tali temi erano sovente oggetto di incroci artistico-sensoriali: si pensi alla presenza di strumenti musicali, in particolare nel Seicento, o alla compresenza di cibi e teschi. Inoltre, la natura morta (detta “stilleben”) costituiva un genere maggiore nell’arte fiamminga e olandese e per un pittore che amava sottolineare le proprie radici e la continuità con la tradizione pittorica ha indubbiamente un peso. Dunque, una natura morta imbevuta di luce, di riflessi e di sfumature di azzurri e rosa introdotte nel bianco della tovaglia prende il posto di un ritratto ufficiale o di un dipinto di storia: era davvero un evento incomprensibile per il pubblico.


Nei disegni e nei dipinti intorno all’ultimo quarto del secolo Ensor mostra una libertà inventiva antesignana dell’espressionismo e realizza opere più visionarie, come Scheletro che osserva delle cineserie (1884-1890), nel quale sembra prendersi gioco della tradizionale iconografia dell’amatore di stampe, oppure Autoritratto accanto a una lampada (1886). È ormai quasi accertato che figure spettrali o mostriciattoli siano stati aggiunti nei suoi dipinti e disegni in un secondo momento e questo momento coinciderebbe con la presenza a Ostenda di Helena Blavatsky. Lo stesso avviene per questo dipinto dove, secondo ciò che ne ha scritto Xavier Tricot, il personaggio è stato “scheletrizzato”(23).


Negli interni domestici la donna è ricorrente, cosa che secondo alcuni, per esempio Francine-Claire Legrand(24) è da interpretare come un segno del disagio, del malessere, provato fra le mura domestiche, laddove Susan Canning non esita ad affermare che Ensor fosse particolarmente interessato alle questioni di genere(25). In particolare, del Salone borghese (1881), ella scrive: «I dipinti di Ensor, basati sulle proprie personali esperienze, invitano il pubblico a guardare al salone borghese come a un luogo nel quale l’esperienza quotidiana femminile domina e ha il suo valore»(26).


All’analisi lucida e approfondita di Susan Canning è sfuggita un’opera, Bambini alla toeletta (1886), unicum per la presenza del nudo che non sia grottescamente trattato e perdipiù di tenera età. Si tratta di un dipinto di dimensioni medio-grandi (135 x100 cm) che venne rifiutato dal Salon di Bruxelles ed esposto a quello dei XX nel 1888, ma che rimase nello studio dell’artista fino al 1908, quando sarà acquistato da Emma Lambotte. Della storia di questo dipinto non si sa molto, ma esso segna indubbiamente un “tournant” nella carriera di Ensor: se fiammelle di luce e colori caldi erano comparsi già in La mangiatrice di ostriche, qui per la prima volta si gioca su colori più puri. Si potrebbe dire che Ensor si ispiri alla luce dei mosaici bizantini, se non sapessimo che l’artista non ha mai viaggiato in Italia né tantomeno in Oriente, essendosi spostato solo per brevi periodi in Francia, Inghilterra e Paesi Bassi. Possiamo anche avanzare un’ipotesi: ci troviamo indubbiamente nel salotto dell’artista, ma forti del dubbio che dei bambini abbiano posato nudi, Ensor potrebbe qui aver riproposto un ricordo di sé e di sua sorella da bambini. In questo senso la lettura proposta dal museo stesso secondo la quale il dipinto segnerebbe un momento simbolista nella carriera di Ensor, vacillerebbe un po’. Un Ensor affascinato dalla o dalle poetiche simboliste non è immaginabile. Sebbene da alcuni disegni del 1886 si evinca un gusto alla Odilon Redon per la presenza di creature fantastiche, questo momento potrebbe ascriversi a un risvolto intimo e circoscritto dell’artista che poco o nulla ha a che fare con la linea maestra della ricerca di Ensor. Vero, abbiamo un “pentimento”: la cancellazione di un catino d’acqua in basso a sinistra; ma più che la volontà di trasformare un’iconografia di stampo realista in un’altra più atemporale e idealizzata, in questo atto dovremmo riconoscere invece una scelta puramente estetica, per la quale la permanenza del catino avrebbe costituito un volgare intralcio. Una stanza bagnata di luce, come già scrisse Verhaeren(27), non può che derivare da un’esigenza estetica e dunque porsi come alternativa alla pittura allegorico-simbolista e una sfida alle ricerche condotte dagli impressionisti. Ci si chiede anche se Ensor abbia voluto allo stesso tempo sfidare l’accademia: perché avrebbe ripreso il celebre Spinario per modellare la figura del bambino seduto? E anche la posa assunta dalla bambina in piedi rimanda a numerosi esempi di statuaria classica. Ensor dunque rivisita la scultura classica quasi facendo il verso all’accademia e fornisce una propria versione di pittura impressionista. Era indubbiamente un’opera troppo controversa per poter essere accettata dai Salon ufficiali ma anche dalle mostre di avanguardia, perché esprime un artista incoercibile a stilemi e tendenze a largo seguito.


Autoritratto con cappello a fiori (1883-1888); Ostenda, Mu.ZEE.

La maschera

James Ensor fa rima con maschera, ed è per le opere legate a questa iconografia che è soprattutto noto a livello internazionale. Qui risiede la sua unicità e la sua originalità secondo molti studiosi, e l’artista si sarebbe ispirato perlopiù agli oggetti in vendita nella bottega di famiglia, al teatro occidentale e orientale.


Anche il tema della maschera si inserisce nell’estetica “fin-de-siècle” ma l’uso che ne fa Ensor è completamente personale e originale. Intanto ha una genesi ben precisa, indicata dall’artista stesso nei suoi scritti. Dopo le delusioni e i lutti dell’anno 1887 «l’année terrible» per l’artista, che perde la nonna materna e poi il padre, morto in circostanze misteriose e parallelamente alla realizzazione della sua opera programmatica Entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889, e in seguito anche a quelle che lui chiamava «ostilità» all’interno del gruppo dei XX, Ensor si dedica a una produzione di iconografie grottesche e soprattutto di maschere. La maschera è anche sberleffo a un pubblico, anzi, ai pubblici che lo derisero e lo rifiutarono, e un modo per confrontarsi con grandi maestri. Riferimenti a Bosch e Bruegel sono stati presto e spesso notati, anche dai critici a lui contemporanei, ma anche per tessere un commento dismissivo come nel caso di Verhaeren, il quale, pur trovandosi tra i suoi primi estimatori, soprattutto per l’opera incisa, nella recensione alla mostra dei XX del 1889 scrisse: «Le mostruosità insignificanti e medievaleggianti, che forse spaventavano i contemporanei dei Bosch e dei Brueghel e tentavano i santi Antonio della loro epoca, ci lasciano indifferenti non li troviamo neanche più divertenti»(28). In questo caso e altrove si tratta tuttavia di assonanze superficiali; non si può evidentemente prescindere dal rispettivo contesto storico, ma pur volendo forzare i contenuti, l’uso che se ne fa e gli intenti sono diversi. In Bosch è l’umanità peccaminosa a finire sotto lo scrutinio dell’artista, i volti non sono maschere, ma esseri devianti, finanche mostri, soggetti a un sentimento religioso, acuto nel pittore tardo-medievale ma praticamente estraneo a Ensor. In Bruegel ugualmente, è l’umanità ritratta senza filtri ad attrarre Ensor, che scrisse: «Brueghel il buffo, Brueghel di Marolles [un quartiere popolare di Bruxelles], Brueghel dei contadini, dei rozzi giocosi…»(29).

Le maschere, l’oscurità insondabile e ineliminabile dall’animo umano, il macabro più che il grottesco hanno un unico maestro moderno ossia Francisco Goya, che Ensor aveva visto non solo in riproduzione ma anche dal vero. Come lui stesso racconta(30), rimase molto colpito dall’opera Le vecchie e il tempo (1802-1812) che si trova al museo di Lille, e che Ensor visitò già a ottobre 1885.


La maschera di carnevale cela il volto dei codardi che non hanno il coraggio di rivelarsi e si nascondono dietro un non-volto sornione e ipocrita. È dunque l’ipocrisia il bersaglio cui l’artista mira, sebbene la ripulsa alla sua arte e le parole di disprezzo delle quali fu oggetto fossero espresse senza mezzi termini e per niente camuffate.


Dopo tanti saggi e mostre sulle maschere nell’opera di Ensor e la lettura anacronistica che ne viene data, forse è arrivato il momento di provare una lettura diversa, forse anche più nuova, del travestimento e della maschera nelle sue opere. Ci si domanda se la maschera non fosse per Ensor l’elemento protettivo che filtrava l’aggressività della realtà esterna prima che impattasse sulla sua persona, insomma la membrana che consentiva l’osmosi tra lo spazio definito dall’io e il mondo, più che un significante pirandelliano antelitteram. Più filtro che denuncia, più paura di svelarsi, un nascondersi dunque, che denuncia della propria inautenticità. Indossare una maschera vuol dire non mostrarsi, far immaginare cosa ci possa essere dietro quel simulacro. Ensor amava travestirsi e amava le maschere, ma le maschere fanno anche, banalmente, paura: funzionano allora da barriera tra sé e il mondo ma hanno un potere apotropaico. Qual è la differenza dunque tra indossarla e osservarla? Senza azzardare ipotesi psicoanalitiche, via che è già stata percorsa ma a volte con leggerezza, affermare che per Ensor il travestimento fosse anche un’arma per lottare contro la propria timidezza e insicurezza è ormai un’opinione condivisa, più che un’ipotesi.


Raffigurare maschere non è semplicemente rappresentare delle persone mascherate: maschere sono, nelle opere di Ensor, oggetti abbandonati in terra, poggiate su un vaso, appese alle pareti a mo’ di trofeo, parti di manichini o fantocci che l’artista stesso si divertiva a confezionare, o più tradizionalmente, maschere che adornano un viso umano (o chissà). A volte non è chiaro se siamo davanti a personaggi mascherati o a dei manichini, oppure, come in Vecchia donna circondata da maschere (1889), ci troviamo immersi in una rappresentazione teatrale, in cui elementi fantastici si mescolano a una figura, apparentemente una donna, anche se potrebbe trattarsi di un uomo travestito; altre volte, invece, come in L’intrigo (1890) sono le maschere a sembrare degli esseri umani.


L’artista iniziò a rappresentare uomini e donne mascherati tradizionalmente come in Maschere scandalizzate (1883), una delle prime opere con questa iconografia, per giungere a un’autonomia della maschera, fino all’invasione claustrofobica dello spazio, come in Ensor circondato da maschere (1899). In quest’ultimo dipinto è compressa una varietà impressionante di fisionomie, prevalentemente a carattere mostruoso; una ridda di volti, come avviene nei tipici carnevali belgi, in mezzo ai quali emerge il pittore, sereno, con il proprio volto e un cappello che rimanda a certi autoritratti di Rembrandt o anche a un ritratto di Saskia, la donna tanto amata dal pittore olandese, al cui cappello rosso piumato Ensor si inspira. Ensor maschera tra le maschere? O qui finalmente liberato dagli incubi? Non è dato saperlo, ma senza dubbio, nei suoi ritratti, Ensor si mostra fiero e non interessato a una dolorosa introspezione psicologica.


Francisco Goya, Le vecchie e il tempo (1802-1812); Lille, Musée des Beaux-Arts. A gennaio 1885 il padre di Ensor viene aggredito e ferito quasi mortalmente in un bar di Ostenda: Ensor rimase scosso e scioccato alla vista delle ferite e del sangue; nello stesso anno si reca a Lille dove ammira in particolare un dipinto grottesco di Goya (Le vecchie e il tempo). Nasce proprio in questo periodo il suo interesse per temi macabri.
L’Intrigo (1890); Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten.

Maschere scandalizzate (1883); Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique.

Vecchia donna circondata da maschere (1889); Gand, Museum voor Schone Kunsten.


Ensor circondato da maschere (1899); Komaki (Aichi, Giappone), Menard Art Museum.


Le strane maschere (1892); Bruxelles, Musées royaux de Beaux-arts de Belgique.

ENSOR
ENSOR
Laura Fanti
James Ensor (Ostenda 1860-1949), figlio di un ingegnere inglese e di una negoziante fiamminga di Ostenda, comincia a interessarsi all’arte ancora molto giovane. Si iscrive all’Accademia di belle arti di Bruxelles ma non condivide il tradizionalismo dei colleghi. Lascia la capitale e torna nella città natale. Cerca sponde intellettuali nelle avanguardie del tempo, si ispira ai paesaggi della sua terra sul Mare del Nord, al simbolismo; ma soprattutto coltiva una corrisposta, profonda antipatia per i borghesi della sua città, idee anarchiche e un’invincibile tendenza a isolarsi. È attratto dalla vena grottesca di un suo grande conterraneo, Jheronimus Bosch, dal carnevale, dalle maschere e dal rifiuto della folla, vista come una minaccia. L’intera umanità gli fa orrore, e la raffigura spesso seguendo ossessivi schemi espressionisti. Recentemente Ostenda, come una sorta di risarcimento pacificatorio, ha trasformato la sua abitazione in museo.