DAL MINOICO
AL MICENEO

Il passaggio dal Minoico al Miceneo conosce momenti di violenza, ma si svolge in maniera complessa.

Dopo che nella Grecia continentale, già all’inizio del II millennio a.C., si era formata una larga “koinè” culturale, i micenei (che all’interno di questa si erano conquistati una sorta di leadership) intorno al 1450 invadono Creta e distruggono i palazzi, inizialmente con l’eccezione di Cnosso (anche Hagia Triada sembra che al momento si salvi): anzi dentro Cnosso probabilmente si insediano, e a questo si deve la presenza nel sito di tavolette in Lineare B. Non erano mancate nella storia cretese altre catastrofi, né erano mancati fra le due civiltà contatti, certo meno traumatici: stavolta però il trauma c’è, e poi, entro tempi abbastanza brevi, anche Cnosso e Hagia Triada saranno a loro volta distrutte. Segue per Creta un periodo non brillante, in cui le tavolette in Lineare B compaiono anche in altri centri, quasi a indicare un radicamento dei conquistatori; poi verso la fine del millennio, fra 1190 e 1000 a.C. (Subminoico), nuove grosse ondate di immigrazioni continentali mettono fine alla civiltà cretese. Allo spopolamento dei siti più importanti fa seguito un modesto ripopolamento, in parte anche a Festo, ma soprattutto nascono qua e là nuovi abitati d’altura.


La rilevanza di questo rapporto o avvicendamento fra civiltà minoica e civiltà micenea non deve indurci a trascurare le isole Cicladi e Santorini, dove pure erano fiorite una grande civiltà e un’interessante produzione artistica nel II millennio a.C. Oltre alla ceramica, l’alto artigianato produceva vasi di pietra levigata e, soprattutto, i cosiddetti “idoli”, sculture in genere di ridotte dimensioni realizzate nello splendido marmo di Paro o di Nasso. Rappresentavano in forma molto schematizzata la figura umana. Qualche volta sono più complesse, come il notissimo Suonatore di lira proveniente da Keros e conservato al Museo nazionale di Atene, eseguito intorno al 2000 a.C.

Coppa d’oro, da Micene (XVI secolo a.C.); Atene, Museo archeologico nazionale. La coppa fu identificata da Heinrich Schliemann con la Coppa di Nestore descritta nell’Iliade.


Affresco delle scimmie blu (XVII secolo a.C.), pittura murale da Thera; Atene, Museo archeologico nazionale.


Resti dell’antica Thera; isole Cicladi, Santorini, collina di Mesa Vouno.

Nell’isola di Santorini, la più meridionale delle Cicladi (quasi 200 chilometri a nord di Creta), la civiltà minoica aveva “esportato” l’idea del palazzo, che venne realizzato a Thera, nella località detta oggi Akrotiri. Nell’ambito di un insediamento di otto blocchi di abitazioni, erano distribuiti in maniera apparentemente non ordinata, a causa della scarsa disponibilità di spazio, vani di abitazione, di rappresentanza, di stoccaggio. Splendida la decorazione pittorica: divinità e fedeli, scimmie e antilopi, scene di paesaggi alberati come quelli del cosiddetto Affresco della primavera, e soprattutto la spettacolare veduta, quasi a volo di uccello, di un movimentatissimo porto, in una scena dominata al centro da un grande edificio dotato di una scala monumentale e animata da una folla di piccole figure umane che compaiono qua e là, ma anche da navi e da elementi del paesaggio attentamente rappresentati. Anzi, un grande studioso italiano di civiltà preclassiche (Luigi Bernabò Brea) ha sostenuto addirittura che non si tratterebbe di un solo porto, ma di due diversi, collegati fra loro da un itinerario espresso in forma, diciamo così, riassuntiva. Combinando le notizie sugli itinerari più battuti e le caratteristiche fisiche dei luoghi raffigurati, Bernabò Brea giunse alla conclusione che i due porti erano la stessa Thera e Lipari. Interpretazioni a parte, queste pitture sembrano più “libere” di quelle minoiche, le quali, pur dando sempre l’impressione di una serena freschezza, obbedivano però, per esempio nella resa della figura umana, a certi schemi come quelli di cui si diceva all’inizio (testa e gambe di profilo, torace frontale). Alla metà del XVII secolo, o forse più precisamente nel 1628 (come si è detto), un terremoto e una violentissima eruzione sconvolsero l’isola.

Come una Pompei dell’Egeo del II millennio a.C., Akrotiri fu sepolta, e al tempo stesso conservata, da pomici e detriti; secondo alcuni, un’ondata marina gigantesca si riversò verso Creta. È dubbio, si è pure detto, se davvero questo evento sia da porre in relazione con una delle distruzioni dei palazzi di Creta, ma fu comunque un evento sconvolgente nella storia del Mediterraneo.


vedute aeree di Micene.


vedute aeree di Micene.

Ma torniamo ai micenei, che dopo la conquista di Creta si impongono come punto di riferimento nei commerci mediterranei. Elemento fondamentale della loro civiltà è la scrittura in Lineare B, che, ricordiamo, usa segni che rappresentano sillabe. Questi segni sono ottantanove, di cui quarantaquattro derivanti dalla Lineare A: esprimono una lingua che potremmo definire un preludio di quella greca, mentre la Lineare A, per ora, non sembra funzionale a nessuna lingua a noi nota. Fra i giacimenti rinvenuti, i più numerosi sono proprio nella Cnosso occupata dopo la conquista: tremilatrecentosessantanove tavolette, in cui sono state riconosciute le mani di cento scribi. Millecentosette sono quelle rinvenute a Pilo in Messenia (trentadue le mani individuate), alcuni altri gruppi provengono da Tebe, Tirinto, Micene stessa. Vanno aggiunti anche testi incisi su vasi. I contenuti sono soprattutto di carattere amministrativo organizzativo: liste di addetti ai servizi del palazzo, di soldati e marinai, di assegnatari di terre del re, di bronzieri, ma anche di animali da allevamento, di tributi, di offerte a santuari, di merci, con particolare attenzione allo stoccaggio: non vi sono, come invece accade in alcuni archivi del Vicino Oriente antico, testi diplomatici o letterari o religiosi.


veduta di alcuni resti di Micene in Argolide, nel Peloponneso.
Vedremo che nella grande architettura si trova qualcosa di nuovo rispetto al mondo minoico. Gli insediamenti, di solito collocati in altura e fortificati, in parte riecheggiano quelli minoici, senza raggiungerne le dimensioni, ma in compenso quasi “codificando” uno schema architettonico che a Creta non era stato sviluppato con particolare attenzione, quello del “megaron”. E vedremo anche altre situazioni di grande interesse nel mondo funerario. Micene sorge su un’altura del Peloponneso a circa 9 chilometri da Argo, in un bel panorama montuoso nella valle dei fiume Inachos: una zona dove convergevano numerosi e importanti itinerari. Era già sicuramente abitata nel Bronzo Antico; nel Bronzo Medio o Medio Elladico (2000-1600 a.C.) vi si insedia, portandola a una notevole potenza, la popolazione di stirpe greca degli achei. Sono loro, fra l’altro, che introducono la scrittura Lineare B. Nel Bronzo Tardo o Tardo Elladico si ha la fioritura maggiore.

Pugnale con lame ageminate raffiguranti la Caccia al leone (XVI secolo a.C.), dal Circolo A di Micene; Atene, Museo archeologico nazionale.


“Rhyton” in forma di protome di leone (XVI secolo a.C.), dal Circolo A di Micene; Atene, Museo archeologico nazionale.

Gli studiosi distinguono varie fasi: Tardo Elladico I e II (1600-1500 e 1500-1425), con grande sviluppo economico, politico e artistico, con abbondante produzione di ceramica e infine con espansione nell’Egeo, di cui fa parte l’arrivo a Cnosso; Tardo Elladico IIIA e IIIB (1425-1340 e 1340-1210), in cui Micene, sopravvivendo anche a distruzioni di cui non si conoscono con certezza le cause, controlla i mercati più lontani, dalla Palestina alla Sardegna, dall’Italia adriatica all’Egitto all’isola di Cipro (qui i testi in Lineare B citano Enkomi, grande emporio e centro di produzione del rame, di cui restano notevolissime rovine presso l’attuale Famagosta); Tardo Elladico IIIC, infine, in cui la potenza della città è ancora notevole, e in cui si inquadrerebbe la mitica partecipazione del grande condottiero Agamennone alla guerra di Troia che si concluse nel 1184 (secondo il celebre scienziato Eratostene, terzo bibliotecario della Biblioteca di Alessandria d’Egitto, dove morì nel 194 a.C.). Ma intorno al 1070-1060 vi sarà una nuova distruzione, stavolta definitiva.

La maggior parte delle strutture messe in luce da Schliemann e dai suoi successori si inquadra nel Tardo Elladico IIIB, anche se si sono individuati resti di una città precedente, apparentemente costruita “a maglie larghe” su una superficie abbastanza vasta. Nel XIV secolo le mura vengono definitivamente ricostruite in grandi blocchi: “mura ciclopiche” attorno alla sommità dell’altura, con un perimetro più o meno triangolare. Vi si aprono varie porte: la più famosa è quella nord-occidentale, detta Porta dei leoni (che fa parte di una ristrutturazione delle mura del XIII secolo a.C.), importante anche perché, unica rovina all’epoca ben visibile, ebbe il “merito” di attirare l’attenzione di Schliemann. Stipiti e architrave sono costituiti da monoliti giganteschi; sopra l’architrave stesso è un rilievo triangolare con due leoni affrontati (o forse meglio leonesse, o secondo alcuni studiosi forse sfingi) e, fra loro, una colonna: simbolo della potenza del re? Emblema araldico della famiglia regnante? Unificazione di due case reali? Sorveglianza dell’ingresso? Le spiegazioni potrebbero essere molte.

piante di “megaron”: 1) Tirinto; 2) Pilo; 3) Micene.


Tesoro di Atreo (XIV secolo a.C.), particolare dell’interno; Micene.

A circa cento metri di distanza dalla Porta, verso ovest (e cioè fuori alle mura), è un circolo in muratura (Circolo B) che racchiudeva ventisei tombe a fossa: più tardi la cosiddetta Tomba di Clitennestra si sarebbe sovrapposta e lo avrebbe in parte danneggiato. All’interno della Porta invece, subito a destra per chi entra, accanto a un edificio interpretabile come granaio, è il Circolo A, che è proprio quello che Schliemann scavò nel 1876. Il B, più antico (1650-1550 o 1600-1520, secondo due ipotesi diverse), è senza dubbio ricco di corredi importanti: una maschera funeraria di oro e elettro, armi di bronzo e di ossidiana, vasi di pietra o metallo o faïence, ornamenti d’oro. Ma il Circolo A (XVI secolo), pur racchiudendo solo sei tombe contro le ventisei dell’altro, è di importanza decisamente più notevole: vasellame d’oro o argento o alabastro; “rhytà” d’oro o d’argento, fra cui uno d’oro in forma di protome di leone, realizzato a sbalzo su una lamina molto spessa, con occhi di forma allungata e narici raffigurate a spirale; armi riccamente decorate in agemina con scene di caccia o di assedio; una coppa d’oro che Schliemann definì Coppa di Nestore e soprattutto cinque famose maschere funerarie sempre d’oro. Quella che Schliemann battezzò precipitosamente Maschera di Agamennone (e che molti lo accusarono di aver commissionato a un falsario) fu realizzata martellando una spessa foglia d’oro su una matrice in legno e incidendo i dettagli con una punta acuminata: era indossata da un uomo sepolto nella tomba 5 insieme con un gruppo di sessanta armi e con oggetti d’oro per un peso di 2,4 kg. Nella tomba 3 erano sepolte tre donne e due bambini, anche qui con grande profusione di ori.

Tutti questi oggetti sono al Museo nazionale di Atene. Anche in altri contesti storico-culturali, queste esibizioni di potenza e ricchezza e questi “messaggi” affidati alle armi (e in questo caso anche alle scene di guerra) sono indice dell’emergere di potenti aristocrazie guerriere. Per spiegare quella ricchezza si è pensato alla pirateria, o semplicemente al grande volume dei commerci di cui si è detto; comunque, a un altro aspetto di queste relazioni a largo raggio si riferisce un’ipotesi secondo cui almeno una parte dell’oro profuso in queste e in altre opere proverrebbe dalla Transilvania.

Non è questo, tuttavia, il gruppo di potere che fa costruire il palazzo, almeno quello che oggi vediamo, che si data molto più tardi, dopo il 1350. Anche coloro che lo occupavano in quest’ultimo periodo, però, potrebbero essere stati i committenti di tombe molto impegnative, pur se non altrettanto ricche di ori: la cosiddetta Tomba di Clitennestra, che abbiamo visto sovrapporsi in parte al Circolo B, e soprattutto il Tesoro di Atreo, di cui fra pochissimo parleremo.

Partendo dall’ingresso poi sostituito nel XIII secolo dalla Porta dei leoni, si saliva attraverso la Grande rampa verso un’area sacra e verso strutture interpretate come “cittadella” e area di culto (anche se c’è qualche dubbio) per poi intraprendere l’ascesa verso il palazzo stesso. In un tipo di edificio non del tutto paragonabile a quelli di Creta, spicca un bell’allineamento portico vestibolo “megaron” con focolare centrale fra quattro colonne. Il “megaron”, come è noto, costituisce nella definizione di Omero la parte principale della casa signorile: il termine è poi applicato a varie situazioni in vari contesti, ma trova nel mondo miceneo l’applicazione più omogenea proprio nelle tre città principali: parleremo fra pochissimo anche di Tirinto e Pilo. Si è a lungo dibattuto se questa struttura, che presenta una pianta rettangolare e a cui si accede attraverso un fronte colonnato, non possa in qualche misura prefigurare il tempio greco. Quanto alla relazione fra palazzo e città, qualcuno ipotizza che alcuni edifici e case individuati nei dintorni fossero in qualche modo in collegamento funzionale con la residenza regale.


Tesoro di Atreo, “dromos” e porta di ingresso (XIV secolo a.C.); Micene.

Fuori delle mura, il monumento più noto è sicuramente il Tesoro di Atreo, databile al 1330 circa a.C. Si introduce una tipologia monumentale ambiziosa: all’interno di una collina, che assume perciò la funzione di un tumulo, è inserito un grande vano a pianta circolare chiuso da una “pseudocupola” a sesto acuto: una cupola, cioè, costituita di blocchi di pietra disposti con estrema cura in cerchi di diametro man mano calante. A questo ambiente è annesso un piccolo vano che ospitava il sarcofago. La facciata, alta più di dieci metri, presenta al di sopra della porta un vano triangolare, probabilmente predisposto, come la Porta dei leoni di non molto più tarda, per ospitare un rilievo, il quale però non è più al suo posto. Si arriva a tale facciata attraverso un “dromos” (corridoio di accesso) lungo trentotto metri e largo sei, fra due pareti di pietra in grandi blocchi squadrati.

Tirinto, presso l’odierna Nauplia, a poca distanza dal golfo di Argo, occupa una lingua di terra in senso nord-sud: a sud la città alta, a nord la città bassa, entrambe entro una cinta muraria “ciclopica” particolarmente poderosa e ben conservata. È costruita in enormi blocchi dalla forma irregolare; nasconde al suo interno gallerie e casematte.

Il palazzo sulla città alta assume un aspetto definitivo nel XII secolo a.C. L’asse principale, quello del “megaron” che applica lo schema suddetto, è completato da una grande corte porticata e da un ingresso monumentale (Grandi propilei); prospetta però non verso la città bassa, ma dalla parte opposta. Sono state rinvenute nel palazzo importanti pitture, come quella del corteo matrimoniale con molte figure femminili e quella della caccia al cinghiale. Nella città bassa sono i resti di vari edifici di una certa consistenza: il ritrovamento, in uno di essi, di un gruppo di tavolette, che in genere sono ritenute pertinenti alle tematiche della corte reale, ha fatto pensare a un buon rapporto fra gli occupanti di questa parte del complesso (peraltro anch’essa inserita nelle mura monumentali) e gli abitanti del palazzo. Va aggiunto per completezza che un’ulteriore parte della popolazione abitava fuori delle mura (anche qui con edifici non trascurabili), pronta evidentemente a rifugiarsi all’interno di esse in caso di pericolo.


Gioco del toro (“taurocatapsia”) (1550 a.C. circa), particolare; Iraklion, Museo archeologico.

Infine Pilo, patria dell’eroe omerico Nestore, è anche una sorta di “luogo sacro” per gli studiosi di civiltà micenea, in quanto qui si conserva il più copioso nucleo di tavolette in Lineare B rinvenuto sul suolo della Grecia continentale (più numerose ancora, si ricorderà, sono quelle rinvenute a Cnosso). Qui, inoltre, si è trovata espressa in sillabico, “puro”, una prefigurazione del nome storico della città. Posto al centro di un abitato, il palazzo si data, almeno per le fasi più riconoscibili, al XIV-XIII secolo a.C. Si dispongono su uno stesso asse, come ormai sappiamo, propilei, vestibolo e “megaron” con focolare, ma quest’ultimo sembra possa essere ricostruito come particolarmente fastoso, e sono stati rinvenuti anche quelli che appaiono come i resti di un trono. Nel vestibolo è stato rinvenuto un affresco con una processione rituale, in una scena dominata dalla figura di un poderoso toro. Nell’ambito del grande complesso, le tavolette in Lineare B sono state rinvenute in vari nuclei e ambienti (un gruppo di cinquantasei, per esempio, era dedicato a transazioni nel commercio dell’olio), mentre in un unico magazzino erano conservati quattromilacinquecento vasi. Ecco, i vasi. La ceramica micenea “invase” per secoli il bacino mediterraneo: in Oriente (Anatolia, mondo ittita, Egitto, Cipro) e in Occidente (Italia peninsulare e insulare, Balcani).

Anche se la produzione è legata al palazzo, non vi sono botteghe con “caratteristiche di palazzo” come nel mondo minoico, dove ne abbiamo parlato in effetti suddividendole a seconda dei singoli centri (si pensi alla ceramica di Kamares a Festo): la produzione è comunque assai ricca, i temi raffigurati molteplici. Vengono in qualche modo ripresi da Creta il polpo e altri motivi marini, nonché motivi vegetali, ma con tendenza a un’evoluzione dal naturalistico al decorativo; si aggiungono però, in una fase più avanzata, temi nuovi, come le file di guerrieri. Nel Tardo Elladico I si fabbricano tazze convesse, brocche a becco, “alabastra” per oli profumati, tazze a profilo troncoconico (la forma che vedremo, in oreficeria, in quelle celebri di Vaphiò); poi si aggiungono altre forme (anfora a staffa) fino al Tardo Elladico IIIC: insomma siamo più o meno fra 1600 circa e 1100 a.C. Gli stili conoscono un’evoluzione definita in vari modi («stile pittorico», «stile serrato»), culminante, nelle ultime fasi, con esemplari come il Cratere dei guerrieri di Micene. Lo trovò Schliemann, ed è uno dei casi più eclatanti nel quadro dell’ampia circolazione della ceramica micenea: lo stesso scopritore lo definì «vaso dei guerrieri nasoni», in quanto i soldati armati di tutto punto, che marciano in una postura intermedia fra il profilo e i tre quarti, presentano appunto quella caratteristica fisionomica. La forma più tipica e diffusa, affermatasi con decisione nel XIV secolo a.C., è però quella dei “vasi efirei”, così detti dall’originario centro di produzione, il sito oggi detto Koraku presso Corinto identificabile con la città omerica di Ephyra. Prevale una coppa semiovoidale di piccole dimensioni con anse a nastro verticali, decorata con motivi floreali (liliacee, fiori a bocciolo), o geometrici (gruppi di tre spirali), o ispirati all’antico tema del mollusco argonauta dai lunghi tentacoli.

Fra le altre forme di alto artigianato spicca l’oreficeria, specialmente per le fasi più antiche. Particolarmente note, databili alla prima metà del XV secolo a.C., sono le due tazze troncoconiche a doppia lamina trovate nella tomba, anzi nelle mani, del “principe di Vaphio”, sepolto in questa località presso Sparta con un ricco corredo in gran parte perduto. Lavorate a sbalzo, raffigurano due soggetti collegati fra loro: una caccia al toro (dei due cacciatori, l’uno cade a terra, l’altro volteggia sopra l’animale) cui fa seguito l’addomesticamento. Appare evidente una derivazione dal mondo minoico.

Si riprende dal mondo minoico anche l’uso dei sigilli: anzi, sembra che i micenei si rendano conto che il sigillo è un importante strumento amministrativo solo dopo la conquista di Cnosso. Si usano per porte, vasi e altri contenitori nei più importanti palazzi: scegliendo quasi a caso un esempio fra i tanti possiamo citare quelli dei “magazzini del vino” di Pilo. Però ne scegliamo uno d’oro, non dissimile per forma da quello scelto per Creta: in quello c’era una taurocatapsia, qui un scena di guerra, e così si possono dire simboleggiate due diverse concezioni della vita da parte di due società per alcuni aspetti confrontabili, per altri ben diverse. La situazione politica in cui tutto questo si svolge non è facilissima da definire, malgrado la presenza di tanti testi. Non c’è dubbio che l’istituto dominante sia quello regale, centralizzato e “piramidale” (un vertice e un nugolo di addetti di vario livello), diffuso in tutti i regni micenei oltre che a Micene stessa: Pilo, la Laconia, l’Attica, la Beozia, le Cicladi, la conquistata Creta… Sarebbe intressante capire meglio in quale misura il potere del re fosse anche religioso: fra quaranta testi che lo nominano, solo nove fanno riferimento a offerte dedicate a lui, fra l’altro non si sa se in quanto dio o in quanto sacerdote. Ed è un po’ frammentario anche il quadro della sfera del sacro in quanto tale: abbiamo testimonianze in opere d’arte importanti, come la grande processione del vestibolo del “megaron” di Pilo, e anche moltissime figurine in terracotta che sicuramente hanno a che fare con la sfera religiosa ma che, come spesso accade in questi casi, non si sa bene come interpretare. Un dato accertato però, sia pure accompagnato dai dubbi, è fornito dalle tavolette in Lineare B, che in alcuni casi presentano, espressi in sillabico, nomi di divinità dell’Olimpo come Poseidon, Zeus e forse Ares, Ermes, Artemide. Divinità greche colte in una fase di antichissima, e talvolta incerta, prefigurazione, cosa che si può dire anche a proposito della lingua e della cultura nel suo insieme.


coppe di Vaphio (prima met  del XV secolo a.C.); Atene, Museo archeologico nazionale.

Tutto questo, nella fase finale del I millennio a.C., va declinando, dopo secoli di distruzioni e di parziali ricostruzioni. È la fase del Submiceneo (così come si era parlato di una fase di Subminoico): gioca un ruolo importante, forse, la pressione di nuove ondate migratorie e scorrerie di popolazioni nella parte orientale del Medi- terraneo; lo gioca certamente l’emergere di nuovi centri come Atene, Argo e Lefkandi. Ormai si va verso l’assunzione di un ruolo egemone da parte dell’Attica e dell’isola di Eubea: è decisiva la discesa dal nord, in questo momento del mondo ellenico, della popolazione indoeuropea dei dori.


Queste vicende, come spesso accade, sono espresse anche dal mito: in questo caso il mito del “ritorno degli Eraclidi”. Erano i figli di Eracle, cacciati dal Peloponneso da quello che era stato anche il persecutore di Eracle stesso, il re Euristeo, che gli aveva imposto le famose dodici fatiche. I figli di Eracle erano numerosissimi, le peripezie e disavventure da superare anch’esse incalcolabili, cinque furono i tentativi e solo i discendenti, dopo generazioni, alla fine riuscirono nell’impresa. L’arrivo di una grande popolazione viene trasposto nella leggenda dei discendenti di un grande eroe: è forse una conclusione adeguata del nostro racconto.

CRETA E MICENE
CRETA E MICENE
Sergio Rinaldi Tufi
Occuparsi di Creta e Micene significa affrontare le radici più remote della nostra civiltà. Nel cuore del Mediterraneo, nella seconda metà del terzo millennio a.C., un popolo di provenienza misteriosa fonda nell’isola di Creta un regno che conquista il dominio delle rotte commerciali. La sua cultura si basa su forme di scrittura evolute e dà vita a una forma di urbanizzazione intensiva, con palazzi magnificamente decorati. Circa mille anni più tardi, un popolo di guerrieri – gli Achei di Omero – si insedia nell’isola ed estende il suo raggio di azione alle coste greche continentali e alla Sicilia: è la civiltà micenea. Dopo due secoli di dominio incontrastato anche questa cultura scompare. Ma è da quelle ceneri che nascerà l’arte greca.