SPAZI PER L’ARTE
E LA CULTURA‌

Le sedi museali o, più in generale, gli spazi per l’arte e la cultura rappresentano una tappa obbligata per chi voglia accostarsi all’opera di Renzo Piano.

Nel corso della sua lunga carriera l’architetto genovese ha progettato più di trenta musei e, in particolare, le più importati istituzioni culturali degli Stati Uniti da New York a Chicago, da Boston a Dallas, da Atlanta a Houston, da San Francisco a Los Angeles si sono rivolte proprio al Renzo Piano Building Workshop per la progettazione di nuovi edifici espositivi.


Parigi. Centre Georges Pompidou
Non a caso fu un museo o meglio, un centro per la creatività contemporanea che, al principio degli anni Settanta, rese celebre Renzo Piano: il Centre Georges Pompidou di Parigi (1971-1977).


Laureato al Politecnico di Milano nel 1964, negli anni seguenti il giovane architetto genovese si impegnò in una serie di sperimentazioni sulle possibilità costruttive dei materiali leggeri, in particolare le fibre plastiche, modellate in pezzi riproducibili in serie e da assemblare in cantiere.

Nel frattempo Piano viaggiò in Europa e negli Stati Uniti per acquisire esperienza e misurarsi al fianco di personaggi come Jean Prouvé. In un uno di questi viaggi, a Londra, Piano incontrò un giovane architetto italo-inglese che si stava impegnando in analoghi esperimenti di costruzione prefabbricata: Richard Rogers. Alla fine degli anni Sessanta, i due fondarono un’impresa comune lo studio Piano & Rogers che decise di partecipare a un grande concorso internazionale, indetto dalla Presidenza della Repubblica francese, per il progetto di un grande e innovativo centro di cultura contemporanea da costruirsi in un’area fino ad allora adibita a parcheggio nel Marais, uno dei quartieri del centro storico di Parigi.

Piano & Rogers, Centre Georges Pompidou (1971-1977); Parigi.


Piano & Rogers, disegno di concorso per il Centre Georges Pompidou a Parigi (1970).

ra le seicentottantuno proposte giunte da tutto il mondo, la giuria internazionale proclamò vincitrice quella elaborata proprio da Piano & Rogers, che nei seguenti sette anni saranno impegnati nell’elaborazione del progetto definitivo, dei dettagli esecutivi, e nella supervisione di un difficilissimo cantiere per innalzare uno dei più celebri musei della cultura occidentale e, dettaglio non trascurabile in questa sede, un edificio che muterà profondamente la percezione delle persone verso l’istituzione museale.


L’edificio doveva rispondere a un programma che la committenza aveva impostato alla massima varietà: il Centre Pompidou non doveva essere, infatti, solo un semplice museo, ma accogliere anche una biblioteca pubblica, sale cinematografiche, e spazi multifunzionali per la musica, le arti plastiche e il design industriale. Il progetto di Piano & Rogers era dunque impostato alla massima flessibilità degli spazi interni: una struttura di componenti prefabbricate in acciaio da assemblare in cantiere per comporre un enorme meccano di pezzi in forma di parallelepipedo rettangolare di cinque piani, lungo centosettanta e largo centocinquanta metri, chiuso da pannellature anch’esse prefabbricate, segnato da una scala mobile in facciata e fasciato da una fitta trama di condotti impiantistici multicolori. Un edificio che impiega la sapienza costruttiva e tecnologica per avvicinare l’istituzione museale ai visitatori e per rendere la cultura accessibile. Il carattere “high-tech” del Centre Pompidou è infatti bilanciato da un attento studio dello spazio pubblico e dalla sua apertura verso le esigenze del quartiere in cui si inserisce. La proposta di Piano & Rogers fu l’unica che al concorso internazionale si segnalò per la scelta di destinare quasi la metà dell’area di progetto a grande piazza pubblica. Una scelta coraggiosa, motivata dal fatto che il Marais quartiere densamente costruito e abitato non possedeva all’epoca nessuno spazio di questo tipo. Una piazza inclinata, sul modello di quella di Piazza del Campo a Siena, che accompagna, quasi per forza di gravità, i visitatori all’ingresso del museo, e che prosegue all’interno dell’edificio, il cui piano terra è sgombro e modellato come una seconda piazza contenuta dai trasparenti diaframmi vetrati che segnano i bordi del Centre Pompidou.

Piano & Rogers, Centre Georges Pompidou (1970-1977); Parigi.


Piano & Rogers, Centre Georges Pompidou (1970-1977); Parigi.

Houston. The Menil Collection

La stretta integrazione tra l’edificio museale e il suo quartiere, esperita a Parigi, viene sperimentata da Piano anche pochi anni dopo negli Stati Uniti, in The Menil Collection a Houston, Texas (1981-1987).


Nella sterminata produzione di Renzo Piano The Menil Collection è, a giudizio di chi scrive, il progetto più significativo e il più gravido di conseguenze. Seppur di dimensioni ridotte e lontana dalla spettacolarità di altre opere scaturite dalla matita dell’architetto genovese, è in questa costruzione che Piano mise per la prima volta a punto gli elementi fondamentali della sua architettura: dalla regolarità della pianta alla preminenza della luce naturale filtrata da coperture sfogliate in layer sovrapposti, dalla permeabilità degli accessi all’ambientamento discreto e, in generale, la stretta integrazione delle visuali urbane e naturali circostanti all’interno delle gallerie espositive.


Dominique de Menil, la committente, decise nel 1981 di costruire a Houston un museo per ospitare la sua collezione di arte primitiva e moderna collezione fra le più importanti del mondo, raccolta nel corso di una vita insieme al marito John de Menil. Dominique aveva idee molto precise sul futuro edificio, che condivise con Renzo Piano: anzitutto la volontà di esporre solo una piccola porzione della collezione, a rotazione, e di conservare le altre opere in un magazzino aperto però agli studiosi e ai restauratori.

RPBW, The Menil Collection (1981-1987); Houston. Le “foglie” che formano la copertura sono duecentonovantuno elementi curvi in ferro-cemento, progettati per filtrare ed indirizzare la radiazione solare.


Poi il desiderio che il museo fosse illuminato dalla luce naturale, e che questa fosse filtrata all’interno delle gallerie in maniera tale che i visitatori ne potessero apprezzare le variazioni continue a seconda dell’ora del giorno o della stagione dell’anno. E infine il proposito di costruire non tanto uno splendido edificio isolato, quanto una sorta di “village museum”. The Menil Collection si situa infatti in un sobborgo di Houston, caratterizzato da una serie di bungalow a uno o due piani, costruiti con la tecnica americana del “balloon-frame”. Molti di questi bungalow furono acquistati da Dominique de Menil per ospitare le funzioni accessorie al museo, come gli uffici amministrativi, il bookshop ecc. Il nuovo museo e quartiere dovevano dunque definire una unità funzionale e spaziale integrata.

L’edificio si presenta come un parallelepipedo regolare, a un solo piano, segnato d’ossatura di acciaio dipinta di bianco tamponata dalle stesse tavole di cipresso che segnano i bungalow del quartiere. Su un lato presenta un secondo livello, quello della cosiddetta “treasure house”, il magazzino che conserva in perfette condizioni climatiche e di illuminazione la gran parte della collezione. L’atrio e un unico corridoio trasversale dividono le gallerie espositive, a nord, dalla biblioteca, i laboratori di conservazione e restauro e gli spazi di servizio a sud. Le gallerie sono inframmezzate da patii e piccoli giardini ai bordi dell’edificio, caratterizzati da una vegetazione lussureggiante. Tagli vetrati verticali mettono in comunicazione le gallerie con il quartiere circostante. Questo discreto palinsesto architettonico è impreziosito dalle centinaia di “foglie” in ferrocemento che, affiancate e sostenute da una struttura reticolare in ghisa sferoidale, compongono la copertura del museo: un “pezzo”, attentamente studiato insieme all’ingegnere Peter Rice e testato più volte con modelli e mock-up, che assicura la perfetta illuminazione naturale delle opere d’arte.

In contrasto con l’idea che un museo debba imporre la propria spettacolare presenza, e che il contenitore architettonico debba attirare i visitatori più delle opere d’arte che esso contiene, Piano dimostra invece sensibilità di ambientamento e discrezione di forme. The Menil Collection, così come progettata da Piano, poteva sorgere solo in quel sobborgo di Houston, di cui riprende misure, forme e materiali da costruzione, e per specifiche esigenze di una committenza illuminata come quella di Dominique de Menil.


RPBW, The Menil Collection (1981-1987); Houston.


RPBW, The Menil Collection (1981-1987); Houston.

Nouméa. Jean-Marie Tjibaou Cultural Centre

Analoghe doti di ambientamento e “ascolto” del luogo furono dimostrate nell’incarico del Centro culturale Jean- Marie Tjibaou a Nouméa, in Nuova Caledonia (1991-1998).

Il complesso doveva illustrare la cultura del popolo kanak, diffuso nelle isole del Pacifico, e commemorare Jean-Marie Tjibaou, leader del movimento indipendentista, drammaticamente assassinato nel 1989. Piuttosto che imporre un edificio da cui trasparisse la cultura occidentale del suo architetto, Renzo Piano decise di intraprendere un lento processo di ascolto e apprendimento della cultura indigena, affiancato dall’antropologo Al- ban Bensa, di modo che il nuovo centro culturale fosse espressione moderna della millenaria cultura materiale e immateriale del popolo kanak.


RPBW, Jean-Marie Tjibaou Cultural Centre (1991-1998); Nouméa.


RPBW, Jean-Marie Tjibaou Cultural Centre (1991-1998); Nouméa.


RPBW, Jean-Marie Tjibaou Cultural Centre (1991-1998); Nouméa.

Il complesso è posto su una lingua di terra circondata dal mare su tre lati, coperta da una fitta vegetazione, in mezzo alla quale si snodano i percorsi pedonali e si sviluppano i tre “villaggi” di dieci “cases” che compongono il Centro culturale reinterpretazione contemporanea delle capanne kanak in fibre vegetali intrecciate. Dieci edifici di tre differenti dimensioni, dai venti ai ventotto metri d’altezza, affiancati l’uno all’altro e collegati da una galleria pedonale coperta che serve anche gli spazi accessori nel fianco retrostante. Il primo gruppo di “cases” comprende le gallerie espositive; il secondo una sala conferenze, la biblioteca e gli spazi per la ricerca; l’ultimo ospita invece gli spazi per la musica, la danza, la pittura e la scultura locali.


Gli edifici sono caratterizzati da strutture curve, composte da centine e listelli in legno di iroko ed elementi strutturali in acciaio che poggiano su platee in calcestruzzo. Gusci dall’apparenza arcaica che contengono invece dotazioni tecnologiche e bioclimatiche non comuni. La doppia pelle delle “cases”, che allude alle fibre vegetali intrecciate delle costruzioni kanak, racchiude infatti una intercapedine ventilata dove si incuneano i venti monsonici che battono queste isole del Pacifico, contribuendo a mantenere una temperatura costante negli ambienti interni, e innescando correnti d’aria naturali che hanno evitato l’impiego di sistemi di ventilazione meccanica.

RPBW, Jean-Marie Tjibaou Cultural Centre (1991-1998); Nouméa.


Schizzo della sezione di un padiglione del Jean-Marie Tjibaou Cultural Centre a Nouméa (1995).

New York. Nuova sede del Whitney Museum of American Art

Il Centre Pompidou, la Menil Collection e il Centro culturale Jean-Marie Tjibaou sono le tre pietre miliari che hanno fondato la fama di Renzo Piano come uno degli indiscussi maestri contemporanei per la progettazione di spazi espositivi. Una fama che negli ultimi decenni, soprattutto negli Stati Uniti, lo ha portato a costruire un gran numero di musei tra i quali si distingue la nuova sede del Whitney Museum of American Art a New York (2007-2015). Come molte istituzioni culturali americane, anche nella vicenda di questo museo l’iniziativa privata svolge un ruolo cardine. Nel 1914 la scultrice Gertrude Vanderbilt Whitney aprì nel Greenwich Village il Whitney Studio: uno spazio dove gli artisti americani potessero incontrarsi ed esporre le loro opere. Quando il Metropolitan Museum rifiutò la donazione di più di cinquecento opere della sua collezione, Gertrude decise di creare nel 1931 un suo museo che, nel corso dei decenni, acquisì un crescente prestigio.


Nel 1954 la sede venne trasferita sulla Cinquantaquattresima strada, e, dodici anni dopo, su Madison Avenue, nel celebre edificio progettato da Marcel Breuer che nel tempo si è tuttavia rivelato piccolo per una collezione cresciuta a dismisura, e con gallerie troppo anguste per le grandi sculture monumentali tipiche della creatività contemporanea.

La nuova sede del Whitney Museum of American Art progettata dal Renzo Piano Building Workshop riunisce tutti gli spazi del museo all’interno del nuovo edificio, provvisto di numerose e flessibili gallerie che consentono di esporre per la prima volta molti pezzi della collezione sinora nei magazzini. È stata scelta un’area nel Meatpacking District, una zona a carattere industriale, non lontana dal Greenwich Village e dall’High Line. Al piano terra la massa dell’edificio si solleva e arretra rispetto alla strada. Delle ampie vetrate schermano una piazza pubblica che rappresenta il nuovo cuore urbano del progetto, come già era avvenuto per il Centre Pompidou e in molti altri edifici di Piano.

RPBW, Whitney Museum of American Art (2007-2015); New York.

Schizzo della nuova sede del Whitney Museum of American Art a New York (2010).

RPBW, Whitney Museum of American Art (2007-2015); New York.


RPBW, Whitney Museum of American Art (2007-2015); New York.

Questa nuova piazza è aperta al pubblico e alla brulicante vita del quartiere, animata dagli spazi di accoglienza del museo, da una galleria aperta e da un ristorante. Al di sopra, su otto livelli, si dispongono i diciannovemilacinquecento metri quadrati del museo.


L’edificio, in pianta, è articolato in due parti, che partono dalla spina centrale di distribuzione. La porzione a nord è dedicata agli spazi per la preparazione delle mostre e ai laboratori, quella a sud agli spazi espositivi. Al secondo e terzo piano, con una scenografica vetrata sul fiume, si situa il teatro multifunzionale da centosettanta posti, uno spazio che il Whitney non aveva mai avuto a disposizione nelle precedenti sedi. La forma esterna dell’edificio grandi volumi accostati, tagliati a spigoli vivi con una massa più importante verso il fiume e frastagliata e digradante verso la città interpreta il carattere imperfetto e screziato del Meatpacking District in cui è ancora viva l’atmosfera portuale e industriale della vecchia New York. Dal quinto all’ottavo livello si aprono le grandi gallerie, caratterizzate dal doppio affaccio sulla città e sul fiume. La più grande, al quinto piano, è una sala rettangolare di milleseicentosettantacinque metri quadrati senza alcun pilastro: lunga ottantuno metri e larga ventidue metri e mezzo. Verso est ogni galleria si apre su una terrazza, che funge anche da spazio espositivo all’aperto. La galleria all’ultimo piano, l’ottavo, è illuminata naturalmente da una copertura a shed che cattura la luce da nord: la migliore per le opere d’arte. Le scale esterne che rilegano le terrazze e le torri di raffreddamento che svettano in copertura sono riletture delle scale antincendio e delle cisterne caratteristiche degli edifici di New York. Esse contribuiscono a disarticolare ulteriormente la massa del museo, a integrarla nella grana del quartiere e a mediare il passaggio tra l’edificio e il cielo. La struttura in acciaio dell’edificio è tamponata, nella spina centrale, con pannelli prefabbricati in calcestruzzo provenienti dal Canada, e nelle restanti superfici con lastre d’acciaio che integrano le funzioni strutturali e d’isolamento. Splendenti pannelli spessi otto millimetri in acciaio grigio-azzurro alternati con vetrate longitudinali a nord e regolari aperture verso sud e ovest fasciano l’edificio come dei nastri, reagendo alle diverse condizioni climatiche e riflettendo l’acqua dell’Hudson e la luce di New York.

RENZO PIANO & RPBW
RENZO PIANO & RPBW
Lorenzo Ciccarelli