Grandi mostre. 4
Mario Sironi a Milano

APPARIZIONI
E PAESAGGI URBANI

A sessant’anni dalla morte, una retrospettiva ripercorre la parabola creativa dell’inquieto e schivo artista che, in modo singolare, ha attraversato le fasi più innovative del Novecento. Scopriamo i dettagli del progetto espositivo nel racconto della co-curatrice.

Elena Pontiggia

Il 13 agosto 1961 moriva a Milano Mario Sironi. Era da tempo malato, ma il getto d’acqua gelata con cui si era bagnato la testa, alla ricerca di un momentaneo sollievo nella torrida estate milanese, gli era stato fatale. «Come un ingegnere un po’ stanco prende un po’ più di libertà la domenica interrompendo per una volta il lungo, logorante lavoro, Sironi ha smesso il suo. Una officina, una grande officina ferma. Un pittore di genio assai simile a un’officina», scriveva il poeta Raffaele Carrieri.

Sono passati sessant’anni da allora e il Museo del Novecento di Milano ha voluto ricordare la ricorrenza con una grande mostra, sponsorizzata dalla casa editrice Ilisso, curata da chi scrive e dalla direttrice del museo Anna Maria Montaldo. L’antologica comprende centodieci opere e, oltre alla sede principale affacciata su piazza del Duomo, ha anche due appendici nelle sale sironiane dello stesso Museo del Novecento e della Casa Museo Boschi Di Stefano. Si può così rivedere, e con i suoi maggiori capolavori, tutto il percorso espressivo dell’artista, dalla giovanile stagione simbolista all’adesione al futurismo, dalla sua originale interpretazione della Metafisica nel 1919 al periodo classico del Novecento italiano, dalla crisi espressionista del 1929-1930 alla pittura monumentale degli anni Trenta, fino al secondo dopoguerra e al commovente Ultimo quadro (1961), rimasto sul cavalletto al momento della morte.

C’è un comun denominatore nel percorso di un artista inappagato come Sironi, che non ha mai replicato se stesso, ed è (lo dice il sottotitolo della mostra) un senso di sintesi e di grandiosità: due concetti che Margherita Sarfatti, il critico che più ha compreso l’opera sironiana, avanzava già negli anni Venti.

La fata della montagna (1928), Milano, Casa Museo Boschi Di Stefano.


Paesaggio urbano con ferroviere (Paesaggio urbano con vigile) (1923).

Dopo i primi lavori giovanili, infatti, la pittura dell’artista raggiunge una sommarietà radicale che dà imponenza a ogni forma, togliendo il superfluo e, non di rado, il necessario. Le sue figure, i suoi paesaggi urbani, i suoi affreschi sostituiscono alla descrizione la costruzione di una forma sintetica e potente. Rodari, che lo apprezzava molto (e il 25 aprile 1945 gli salva la vita, firmandogli un lasciapassare quando era a capo di un presidio partigiano che aveva fermato Sironi - fascista della prima ora - e l’avrebbe passato per le armi), diceva che le sue periferie sono una lezione di tragedia. Ma, possiamo aggiungere, sono anche una lezione di essenzialità, capace di dare alle opere una imponenza che non dipende dalle dimensioni fisiche: «L’arte non ha bisogno di riuscire simpatica, ma esige grandezza», diceva Sironi stesso. Lo si vede anche nei suoi paesaggi urbani, che in mostra sono numerosi, da quello del 1908, quando andava a dipingere le case in costruzione ai Parioli, a Roma, a quelli degli ultimi anni. Molti, in particolare, sono i paesaggi degli anni 1919-1923, quando l’artista, appena arrivato a Milano, rimane impressionato dalla forza opprimente della città, così diversa dalla «sonnolenta Roma», come la chiamava. I paesaggi urbani diventano allora il suo tema principale. «Ah, vedo che Lei si è specializzato in case», gli dice un incauto collezionista che voleva acquistarne uno, e a cui Sironi, dopo quella frase, rifiuta di venderlo, anche se in quei momenti soffriva letteralmente la fame. La moglie Matilde ricorda che il giorno in cui l’artista aveva dipinto una delle sue Periferie più belle avevano mangiato in tutta la giornata un uovo in due.


«L’arte non ha bisogno di riuscire simpatica, ma esige grandezza» (Mario Sironi)


Pandora (1921-1922).

I paesaggi urbani di Sironi non sono luoghi ridenti: non hanno aiuole, vene d’acqua, viali alberati, luci, vetrine e sono immersi in un colore che è quello della terra e della pietra. La loro durezza è una metafora dell’esistenza, perché non è la periferia a essere dura, ma la vita. Il loro significato ultimo è però propositivo: case e fabbriche sembrano cattedrali laiche e danno un’idea di imponenza, di solidità, di durata. La loro saldezza ha qualcosa di eterno che fa da contrappunto alla drammaticità dell’immagine.

La mostra, come dicevamo, muove dall’inizio, addirittura dall’ex libris Ars et Amor, un lavoro simbolista che l’artista disegna nel 1903, a diciotto anni, e che, se non se ne conoscesse la storia e la provenienza, sarebbe difficile perfino ricollegare a lui. Erano i tempi, del resto, in cui si cantava «Vissi d’arte, vissi d’amore». Nella stagione classica degli anni Venti, quando Sironi è tra i fondatori del movimento del Novecento italiano, segnaliamo almeno La cattedrale (1921), uno dei suoi notturni più affascinanti, e Pandora, L’aratura, Natura morta con ferroviere, sospesi fra gravità e realismo magico.

Del 1927-1928 è Donna seduta e paesaggio, ambientata in un luogo visionario, disseminato di frammenti architettonici, elementi classici, rovine. Jean Clair, in un saggio rimasto famoso, l’ha avvicinata all’iconografia della Melanconia saturnina e da allora l’opera è più nota con questo secondo nome. Accanto a essa va posta La fata della montagna (1928), scelta come immagine-guida della mostra. Sironi l’aveva chiamata semplicemente Composizione, ma il titolo che le è stato apposto esprime bene quel senso di apparizione magica e quella cadenza di mito che l’opera racchiude, anche se la figura non ha nulla di fiabesco nel senso edulcorato del termine, come rivela il suo sguardo drammatico.

Durante gli anni Trenta Sironi abbandona quasi completamente i quadri e inizia a realizzare affreschi e mosaici, sognando una loro rinascita, come nell’Italia dei secoli d’oro (Vittoria alata, 1935; Il condottiero a cavallo, 1935; Studio per la Giustizia fra la Forza, la Legge e la Verità, 1938). Ma la sua non è una storia a lieto fine. Gli ultimi due decenni della sua vita sono segnati dal crollo di tutti gli ideali, politici e artistici, in cui aveva creduto. E poco prima di morire dipinge l’Apocalisse (1961), quasi un contrappasso per un artista-architetto, pittore di città e paesaggi urbani. Sironi adombra così, in quelle visioni di terremoti cosmici, anche il fallimento del secolo breve, con le sue speranze di rivoluzione, di palingenesi, di nascita dell’uomo nuovo.

Mario Sironi. Sintesi e grandiosità

a cura di Elena Pontiggia e Anna Maria Montaldo
Milano, Museo del Novecento
fino al 27 marzo 2022
orario 10-19.30, giovedì 10-22.30, chiuso lunedì
catalogo Ilisso
www.museodelnovecento.org

ART E DOSSIER N. 393
ART E DOSSIER N. 393
DICEMBRE 2021
In questo numero: INIZIATORI (COMPRESI E INCOMPRESI: Savoldo veneziano; Faruffini rivoluzionario dolente; La copertina che inventò il progressive rock. IN MOSTRA: Koons e Saville a Firenze; Parr a Torino e a Roma; Sironi a Milano; Goya a Basilea. NELLE MANI DELLA MAFIA: Capolavori scomparsi.Direttore: Claudio Pescio