Grandi mostre. 2
Jenny Saville a Firenze

LA PITTURA
DELLA CARNE

Corpi dalle forme generose, imperfetti, nudi, lesi, in stato di riposo o forse morti, sono i protagonisti delle opere dell'artista inglese, attratta da sempre da Michelangelo e capace, soprattutto attraverso il colore, di offrire immagini drammaticamente vive.

Lauretta Colonnelli

La potenza della carne. Lo stupore dei corpi tormentati dalle ferite o dalle imperfezioni. Il trionfo della figura che irrompe dalla stratificazione astratta dei colori, dalla stesura pittorica a volte compatta e oleosa, a volte fatta di macchie, gocciolamenti e colature. Appare come un racconto epico quello che Jenny Saville dispiega nelle sue tele monumentali.

Emersa dal YBAs (Young British Artists), il movimento di pittori e scultori che si era formato in Inghilterra a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta del secolo scorso, Saville è oggi famosa in tutto il mondo per i suoi giganteschi corpi di donna. Per aver sfidato l’immagine stereotipata del corpo perfetto. Per aver accolto il tema femminista e transessuale, infrangendo i ruoli di musa, modella, amante storicamente assegnati alle donne nel mondo dell’arte. Per aver costruito un serrato dialogo tra figurativo e astratto, tra la grande tradizione della pittura e della scultura europea e il modernismo di Willem de Kooning e Cy Twombly e la ritrattistica di Pablo Picasso e Francis Bacon.

FAR SCORRERE UN COLORE SOPRA UN ALTRO, FINO AD AVERE L’IMPRESSIONE CHE «IL PIGMENTO STESSO, OLIO, PASTELLO O ACRILICO, SI SAREBBE TRASFORMATO IN CARNE» (JENNY SAVILLE)


Saville è nata a Cambridge una cinquantina di anni fa. Dice di essere stata affascinata fin da bambina dalle figure voluminose, dai nudi possenti di Michelangelo, dalle Veneri di Tiziano e di Rubens, da come i seni della sua maestra di pianoforte, schiacciati uno contro l’altro sotto la camicia, diventassero un’unica grande massa.

Si iscrisse alla Glasgow School of Art, una delle pochissime scuole dove ancora si praticava il disegno dal vero per due ore al giorno. A vent’anni, quando stava iniziando a dipingere corpi, andò a farsi un giro per gli Stati Uniti. Guidò da New York fino a New Orleans. E fu una rivelazione. Non avrebbe mai immaginato quanta carne potesse crescere intorno a un corpo. E quanto fossero numerosi quei corpi monumentali. Si fermava a osservarli per ore, davanti ai centri commerciali o nei parchi, affascinata dal modo in cui la massa della carne si muoveva. Comincia allora a rendersi conto di quanto avrebbe potuto essere bella e carnosa la pittura. Di quanto sarebbe stato stupefacente creare qualcosa dal nulla, far apparire dei corpi semplicemente facendo scorrere un colore sopra un altro, fino a che si avrebbe avuta l’impressione che «il pigmento stesso, olio, pastello o acrilico, si sarebbe trasformato in carne».

Nel secondo viaggio a New York restò, per un periodo di tempo, nell’ambulatorio di un chirurgo plastico a studiare gli innumerevoli modi in cui la carne poteva essere tagliata, sfigurata e poi ricostruita seguendo un punto di vista artistico. Questa esperienza cambiò la sua percezione del corpo, dandole l’opportunità di verificare quanto il corpo fosse resistente e al tempo stesso fragile. Poi si mise a esplorare le patologie, passò giornate intere tra i cadaveri all’obitorio, studiò scultura classica e rinascimentale, esplorò i corpi che sfidavano le dicotomie di genere, e i movimenti con i quali riuscivano a intrecciarsi i corpi degli amanti o quelli delle madri con i figli.

Da queste molteplici sperimentazioni nacque il suo primo capolavoro, una tela a olio larga cinque metri, alta quasi tre, intitolata Fulcrum. Cominciò a dipingerla nel 1997, la concluse due anni dopo. Mostra tre donne obese, nude, ferite, accatastate una sull’altra sopra una barella d’ospedale, legate insieme da una corda stretta che incide la loro carne all’altezza delle braccia. Forse sono tre cadaveri, eppure si ha l’impressione che un fremito attraversi la pelle dei ventri cascanti, che le dita di un piede premano contro una guancia di una delle figure ritratte, che le loro palpebre siano chiuse, non si sa se per il sonno o per la morte. E tutto questo è estremamente ripugnante e crudele e doloroso, e al tempo stesso, grazie ai colori, terribilmente bello, potente, abbagliante.

Jenny racconta che, mentre osservava la carne martoriata da un incidente o da ferite d’arma da fuoco, a un tratto erano i colori a prendere il sopravvento. Racconta che questi colori erano semplicemente e incredibilmente belli, come quelli di un tramonto. Che in quei momenti le appariva la pittura, e all’improvviso sapeva come avrebbe mescolato le tonalità, o come le avrebbe stese una accanto all’altra.

Accadde anche alla morte del padre. Jenny era seduta vicino a lui e vide la vita defluire letteralmente dal suo corpo. Ricorda che era sconvolta e al tempo stesso consapevole di quanto quell’istante fosse luminoso, e di quanto fosse importante conservare quell’immagine dentro di sé, «tutta la vita che c’era in quel passaggio verso la morte». Osservava la carne che continuava a vivere e a cambiare forma e colore, nel suo processo di scomposizione e decomposizione, anche al momento della morte, anche dopo che lo spirito era volato via.


Study for Pentimenti III (sinopia) (2011).


Gestation (2017).

SPREMERE, SPALMARE E RASCHIARE IL PIGMENTO SULLE SUE GRANDI TELE, ACCENTUANDO IL DIALOGO TRA IL FIGURATIVO E L’ASTRATTO


Sono stati ancora i colori, con tutta la loro bellezza e violenza, a colpirla durante il parto. Ha avuto due figli e ogni volta ha chiesto a un’amica di fotografarla mentre viveva quell’esperienza. Ha dipinto anche questo momento così intimo e così eroico, che nessun artista in passato aveva mai avuto il coraggio di affrontare. Si era già autoritratta nuda durante le gravidanze, con il ventre colmo dalla crescita di nuova carne e nuove membra. «Ti stai letteralmente riproducendo quando sei incinta, al modo in cui si riproducono le linee su un foglio da disegno», rifletteva. Da allora Saville ha continuato a spremere, a spalmare e a raschiare il pigmento sulle sue grandi tele, accentuando il dialogo tra il figurativo e l’astratto, e facendo sembrare sempre di più i suoi corpi dipinti come se respirassero, più vivi dei corpi viventi.

Oggi i suoi quadri, ancor più di quelli di vent’anni fa, appaiono «sontuosi e aggressivi, pieni di pathos e di sereno distacco, abietti e virtuosi, immuni però da volgarità e oscenità, in fondo tragici ma ricolmi di grazia e tenerezza», come scrive nel catalogo della mostra Sergio Risaliti, direttore del Museo Novecento a Firenze. Era da un po’ che Risaliti pensava di organizzare una mostra con le opere di Saville. Un paio di anni fa, sapendo che l’artista aveva una passione per Michelangelo, la invitò a Firenze. Lei accettò. Ma avvertì: «Non voglio soltanto vedere le sculture. Voglio camminare per le strade dove lui camminò, mangiare quello che lui mangiava, voglio conoscere tutti i dettagli più intimi della sua vita». Fu passeggiando sulle tracce del maestro rinascimentale che Saville e Risaliti cominciarono a ragionare su una mostra diffusa in vari musei della città. Ora in corso fino alla fine di gennaio. Un centinaio tra disegni e dipinti nelle sale del Museo Novecento. Nel loggiato, Rosetta II, una giovane donna non vedente ritratta come un antico cantore cieco, dialoga con il Crocifisso ligneo di Giotto sospeso al centro della navata di Santa Maria Novella, aperta sul lato opposto della piazza. Nel Museo degli innocenti, il grande quadro The Mothers (2011), con il bambino che scivola via dall’abbraccio della madre. Fulcrum troneggia nel salone dei Cinquecento a Palazzo vecchio, contrapposto alle eroiche battaglie di Vasari e al gruppo scultoreo del Genio della vittoria di Michelangelo. Nelle stanze di Casa Buonarroti, dove Jenny trascorse giorni interi osservando i disegni di Michelangelo, leggendo le sue lettere, è arrivato tra gli altri il dipinto Compass, accostato a un’urna cineraria etrusca. Raffigura un uomo e una donna nudi, e altre due figure alle spalle della coppia sono semisdraiate su un lettino come nei simposi, o nelle antiche serene scene erotiche.

Infine, nel Museo dell’Opera del duomo, dove si conserva la Pietà Bandini, una delle ultime fatiche del Buonarroti, Saville ha esposto un disegno alto tre metri, al quale ha iniziato a lavorare due anni fa. Ha prima studiato a lungo il gruppo in marmo con il Cristo sorretto da Maria, da Maddalena e dall’anziano Nicodemo al quale Michelangelo aveva dato il proprio volto. Ha parlato con i restauratori che allora stavano ripulendo il marmo (lavoro concluso un paio di mesi fa), si è fatta raccontare i difetti del blocco di pietra, le venature impreviste, le numerose microfratture difficili da individuare dall’esterno, le tante piccole inclusioni di pirite per cui, come aveva scritto il Vasari, «faceva fuoco» a ogni colpo di scalpello. Tanto da costringere l’artista ad abbandonare il lavoro. Saville ha preso a modello la scultura per disegnare il suo Study for Pietà, dove alcuni personaggi senza abiti e perciò senza tempo o connotazioni ideologiche sorreggono un giovane, vittima forse della barbarie politica, magari un migrante, o un martire del terrore. Ha seguito la tecnica di Michelangelo di alternare il marmo grezzo al marmo levigato, estraendo così la carne dalla roccia. Allo stesso modo, ha cavato dalle zone astratte della pittura un naso, un orecchio. Una composizione che non potrebbe mai esistere nella vita reale, eppure con più forza rivela la vita.

Jenny Saville

a cura di Sergio Risaliti
Firenze, Museo Novecento, Palazzo vecchio,
Museo dell’Opera del duomo,
Museo degli innocenti e Casa Buonarroti
fino al 20 febbraio 2022
catalogo Silvana Editoriale
info e orari: www.museonovecento.it

ART E DOSSIER N. 393
ART E DOSSIER N. 393
DICEMBRE 2021
In questo numero: INIZIATORI (COMPRESI E INCOMPRESI: Savoldo veneziano; Faruffini rivoluzionario dolente; La copertina che inventò il progressive rock. IN MOSTRA: Koons e Saville a Firenze; Parr a Torino e a Roma; Sironi a Milano; Goya a Basilea. NELLE MANI DELLA MAFIA: Capolavori scomparsi.Direttore: Claudio Pescio