Oggetto misterioso
Nino Migliori

I MIEI OCCHI 
TI SEGUONO

Gloria Fossi

La bella Lucrezia Panciatichi, ritratta a Firenze dal bronzino verso il 1540, diventa nel 1902 l'occulto alter ego di Milly, protagonista di uno dei più bei romanzi di Henry James. C'è di più: lo scrittore pare aver notato nella tela un'illusione ottica fino inosservata, il «Monna Lisa effect». Niente a che vedere con il celebre ritratto di Leonardo.

Firenze, pomeriggio di mezza estate agli Uffizi, sala D13, primo piano. Sono qui per “riguardare” Lucrezia di Gismondo Pucci (nata a Firenze nel 1507), raffigurata attorno al 1540 a “pendant” del marito suo coetaneo, Bartolomeo Panciatichi, che aveva sposato nel 1532. La donna condivise le alterne fortune del coniuge, ambasciatore mediceo in Francia, poeta, amico dell’Aretino e del Bronzino, che per lui dipinse anche opere sacre. Per le loro idee vicine agli ambienti riformati d’oltralpe i coniugi subirono a Firenze umiliazioni pubbliche ma poi furono riabilitati da Cosimo I. Lucrezia morì nel 1570, Bartolomeo le sopravvisse dodici anni. I due ritratti sono stati sempre vicini. A casa loro li vide Vasari non oltre il 1568. Nel 1584 Raffaello Borghini li ammirò nel palazzo del figlio Carlo. Agli Uffizi si trovano almeno dal 1704. Quando iniziai a studiarli erano nella Tribuna, dove sono rimasti fino a pochi anni fa. Ma non è questa l’occasione per ripercorrere la genesi delle due opere, sulle quali si è indagato molto, e ne ho riferito, per altri aspetti, anche di recente(1). Stavolta racconterò un particolare che mi ha colpito in quest’ultima visita.

Nel piccolo ambiente che li ospita, giunge appena, dalle altre sale, il brusio dei visitatori. Non stacco gli occhi da Lucrezia. Ogni volta che la osservo dal vivo e ne riaffronto lo studio seguendo nuove suggestioni, pare comunicarmi qualcosa di altro. Vasari aveva elogiato i due ritratti quasi fossero «vivi», secondo il concetto di “mimesis”, che riconosceva al pittore la capacità di rendere un’immagine dipinta così simile al vero da far sembrare che le mancasse solo l’anima, «lo spirito». Sarà la letteratura del XIX secolo a far rivivere proprio lo spirito di certi antichi ritratti, attribuendo loro risvolti psicologici perturbanti. Talvolta l’osservatore s’innamora del ritratto, talaltra s’identifica nel modello, ne diventa il doppio, forse anche per assecondare il «desiderio mimetico», che il filosofo René Girard (1961) riferisce al desiderio di appropriarsi dell’altro. A questo sto pensando. In tasca ho due vecchie edizioni pocket di due autori, Vernon Lee e Henry James, dai quali rileggerò qualche brano. Sopraggiunge una coppia. Fa piacere quando in un museo si avvicina qualcuno che non corrisponde alla categoria degli “scatta (col telefonino) e fuggi”. Spesso si creano intense interazioni. Alcuni significativi episodi li ho raccontati nel libro che s’ispira al titolo di questa rubrica, da qualche giorno in libreria(2). Ma adesso faccio notare ai due giovani quattro parole: «amovr dvre sans fin» visibili, una per una, una per una, sulle quattro barrette d’oro e smalto che intervallano le maglie della catena al collo di Lucrezia. «amovr » è sulla barretta centrale. La frase ricomposta può avere un duplice significato: d’imperituro amore fra i due coniugi, e/o di ancor più elevato e perenne amore spirituale, quello di Cristo che si è sacrificato per l’umanità, secondo le recenti ipotesi di Carlo Falciani e da ultimo di Elizabeth Cropper. Aggiungo che ciascuna barretta, a forma di parallelepipedo, reca su ognuno degli altri tre lati le tre parole mancanti. In pratica, girando ciascuna barretta si leggerebbe l’intera frase secondo diverse sequenze circolari («dvre sans fin amovr», «sans fin amour dure»), con lievi variazioni di significato di una frase che si ritrova in diversi testi francesi dell’epoca imbevuti di spiritualità. Incuriositi, i due giovani si avvicinano, l’allarme suona, si allontanano, poi lasciano la sala. Mi siedo sulla panca sotto a una delle due finestre. Di fronte a Lucrezia, rileggo in silenzio un’intrigante rievocazione. È un brano da Amour dure di Vernon Lee (al secolo l’inglese Violet Paget), uscito a Londra nel 1892 in Hauntings. Fantastic Stories: «Sullo sfondo d’un azzurro cupo, aspro, si stacca l’immagine della duchessa seduta, su un seggiolone con lo schienale alto, irrigidita nella veste di un broccato metallico […] il vestito è di un singolare colore, rosso appassito, il malefico colore del succo di papavero […] Le mani esili, lunghe, con le dita affusolate, il collo lungo ed elegante. Il volto è un ovale perfetto, la fronte un po’ bombata, i capelli ramati luminosi». La descrizione non corrisponde del tutto al dipinto che ho davanti, e nel 1996 proposi che l’autrice vi avesse infuso reminiscenze diverse. Certo, un particolare lo trasse da qui: «Attorno al collo dal candore di marmo porta un medaglione smaltato che sul fronte ha inciso il motto “Amour Dure-Dure Amour”». È un gioiello che finora non ha trovato riscontri in alcun altro ritratto che si conosca, di Bronzino o di altri. Forse la scrittrice non si accorse che nel quadro la frase continuava con le altre due parole, ma a lei serviva soprattutto per narrare di una donna fatale, un fantasma, che intriga sventurati innamorati e li uccide. Vernon Lee visse a lungo a Firenze, dove morì nel 1935, nella dimora del Palmerino. Raffinata studiosa e critica d’arte, non stupisce che conoscesse i dipinti del Bronzino agli Uffizi (nel suo racconto si riconosce qualcosa anche dell’Eleonora di Toledo, anch’esso allora in Tribuna). Comunque, inviò il racconto a Henry James, e di solito s’immagina che quest’ultimo si sia ispirato al racconto dell’amica per la lunga descrizione «di un Bronzino» nel romanzo The Wings of the Dove (1902). Con un ritratto del Bronzino si trova a confrontarsi, in una residenza fuori Londra, la protagonista Milly Teale, destinata a morte precoce. Se in Amour Dure il fantasma di Medea (Lucrezia non è mai nominata) ha palpebre e labbra serrate che le conferiscono «una strana raffinatezza e, allo stesso tempo, un’aria di mistero, una seduzione un po’ sinistra», e «sembrano prendere, ma non dare», nel “Bronzino” non altrimenti specificato da James, la donna dai capelli ramati ha una «leggera squadratura michelangiolesca, gli occhi d’altri tempi, le labbra tumide […] gli importanti gioielli, i rossi sbiaditi dei broccati», ma è «priva di gioia». Soprattutto è «morta, morta, morta». Davvero Lucrezia ha una carnagione abbagliante, quasi lunare, come la descrivono i due scrittori. Ma gli occhi, se ci si pone frontalmente, sembrano strabici. Milly ha la sensazione che la seguano ovunque essa si muova, nella sala dove il quadro è appeso. Milly pare il Bronzino, mentre il Bronzino pare Milly, aggiunge James. Ecco, provate a spostarvi di lato, muovetevi da destra a sinistra e poi viceversa, mantenete fisso lo sguardo sugli occhi del dipinto. Vi seguono. È un procedimento definito nel secolo scorso «Monna Lisa Effect», perché Leonardo avrebbe adottato questa illusione ottica nel ritratto del Louvre. Non è così. Per ottenere quest’effetto, le due pupille devono avere l’angolazione esatta dello sguardo di Lucrezia. Nel 2019 lo scienziato Sebastian Loth ha dimostrato con prove eccellenti che la Gioconda non ci segue affatto col suo sguardo e lo ha confermato “Scientific American” il 17 gennaio 2019. Sicuramente sappiamo però che altri pittori del Cinquecento conoscevano questo meccanismo, ne riparleremo presto. A me pare che Bronzino l’abbia applicato per la nostra Lucrezia, e propongo che Henry James, frequentatore a più riprese degli Uffizi, se ne fosse accorto. Uno dei suoi tanti “understatement”.

ART E DOSSIER N. 391
ART E DOSSIER N. 391
OTTOBRE 2021
In questo numero: INCONTRI RAVVICINATI: Gli eleganti alieni di Giger. Visitatori da altri mondi nell'arte medievale. MUSEI RITROVATI: L'archeologico di Cividate Camuno. La casa di Ensor a Ostenda. IN MOSTRA:Cattelan a Milano; La collezione Rota a Lucca; Soutine e De Kooning a Parigi; Il ritratto ad Amsterdam; Venere a Mantova.Direttore: Claudio Pescio