Grandi mostre. 3
Chaïm Soutine e Willem De Kooning a Parigi

CONVERSAZIONE 
POSTUMA

Due artisti a confronto, vicini per età, ma che non si sono mai incontrati, e che rivelano nelle loro opere particolari analogie, in una continua tensione tra figurazione e trasfigurazione. L'uno, Soutine, punto di riferimento per l'altro, De Kooning, e ora in dialogo al musée de l'orangerie.

Valeria Caldelli

Dipingere come ragione di vita. Colpi di pennello spontanei come gesti magici per trasformare la materia pittorica in “soggetti” capaci di liberare emozioni trasportandoli dall’universo intimo dell’artista a quello di ogni singolo osservatore. Niente accademie, niente convenzioni, nessuna avanguardia artistica riuscivano a spezzare questo filo diretto e a chiudere la finestra tra il mondo esterno e la propria interiorità. «Non dipingo per vivere. Vivo per dipingere», commentava Willem de Kooning rispondendo alle curiosità dei critici che lo vedevano aggredire la tela con pennellate poderose e viscerali.

Chaïm Soutine era troppo ombroso e introverso per fornire qualsiasi intervista o spiegazione, e i suoi modelli, uniche persone che potevano vederlo dipingere, lo descrivevano così: «Diventava rosso come un gambero, sgranava gli occhi e con le dita si palpava la gola e si carezzava il viso. L’emozione sembrava stimolare in lui il senso dei colori e borbottava parole incomprensibili a denti stretti». Nessuno poteva interrompere il suo processo creativo, tanto che gli stessi modelli erano costretti all’immobilità per ore senza fare pause. Racconta uno di loro: «Si lanciava da lontano, e pan! pan! pan! sulla tela». Si dice che un giorno, nel furore di dipingere, si sarebbe slogato il pollice. Soutine era nato nel 1893 nel ghetto di Smilavichy, una ventina di chilometri da Minsk, oggi Bielorussia e allora Russia zarista. Decimo figlio di un padre artigiano, aveva conosciuto fin da piccolo l’estrema povertà e la fame. A Parigi arriva a vent’anni condividendo la vita miserabile degli artisti stranieri a Montparnasse.

De Kooning era approdato ventiduenne, come clandestino, negli Stati Uniti nel 1926, dopo essere nato e vissuto a Rotterdam, figlio di un commerciante di birra. Per sostenersi farà l’imbianchino e solo più tardi aprirà uno studio a Manhattan, pur continuando a lavorare freelance in una ditta di arredamento e progettazione di interni.

Entrambi, Soutine e De Kooning, furono fortemente motivati a diventare artisti in una terra diversa da quella in cui erano nati, ma, nonostante la poca differenza di età, non si incontrarono mai. Una mostra all’Orangerie di Parigi mette a confronto per la prima volta in Europa (dopo quella da poco conclusa alla Barnes Foundation di Filadelfia) le loro opere singolari, di difficile classificazione per qualsiasi storico dell’arte, aprendo così una “conversazione” che non solo rivela “affinità elettive” tra i due artisti, ma anche il modo in cui la nascente arte americana ha trovato nell’espressionismo di Soutine un ponte verso l’astrattismo. 


Spiega la curatrice della mostra, Claire Bernardi: «L’esposizione fa dialogare i loro universi particolari attraverso una cinquantina di opere articolate intorno a dei temi essenziali: la tensione tra ciò che è figura e ciò che invece non ha forma, ma è confuso, sfumato; l’insistenza sulla pittura della carne, su quella dei personaggi e dei paesaggi. Confrontiamo i loro metodi di lavoro, ma individuiamo anche i momenti chiave nella storia della conoscenza e dell’interpretazione delle loro opere: la retrospettiva di Soutine al MoMa nel 1950 e la visita di De Kooning alla Barnes Foundation nel 1952». 


Perché in realtà chi riconobbe per primo il genio di Soutine e lo “esportò” negli Stati Uniti fu l’industriale milionario e collezionista Albert Barnes che nel 1922, in casa del mercante Paul Guillaume a Parigi, restò “fulminato” dall’immagine di un giovane pasticcere nella sua uniforme bianca da lavoro, con un immenso orecchio e lo sguardo remissivo. «È una meraviglia!», avrebbe esclamato l’americano. E tornò a Filadelfia con cinquantaquattro opere di Soutine, rendendo improvvisamente ricco e famoso il pittore russo, fino ad allora trascurato o addirittura ignorato dalla critica e dai suoi stessi colleghi, costretto, per riuscire a sopravvivere, a cercare persino di vendere più volte e a più persone lo stesso quadro per pochi spiccioli. Quei trentasettemilaseicento franchi pagati da Barnes, a cui il “self-made man” aggiunse presto nuove somme per l’acquisto di altre opere dell’artista, sollecitarono l’interesse della stampa francese che trasformò Soutine in una sorta di “eroe”, passato repentinamente dagli sporchi sobborghi di Montparnasse agli hotel di prima categoria con auto, autista e camicie stirate. 


Un turbinio di pennellate, un'immagine quasi astratta, esempi di trasfigurazioni e trasformazioni


Erano quelli gli anni in cui negli Stati Uniti cominciava a formarsi una coscienza artistica propria, alimentata dalla curiosità di quanto accadeva nel Vecchio continente. Galleristi parigini, spinti anche dal ristagno economico determinato dal conflitto mondiale, aprivano succursali nel Nuovo Mondo, esportando da Matisse a Picasso, mentre danarosi collezionisti arrivavano in Europa per acquistare direttamente le opere dagli artisti o dai loro mercanti.


Chaïm Soutine, La collina di Céret (1921), Los Angeles, Lacma - Los Angeles County Museum of Art.


Willem de Kooning, Amityville (1971).

Una "conversazione" che rivela non solo "affinità elettive" tra i due artisti, ma anche il modo in cui la nascente arte americana ha trovato nell'espressionismo di Soutine un ponte verso l'astrattismo


La scoperta di Soutine da parte di Barnes provocò non pochi “turbamenti” nell’ambiente culturale americano, pronto a prendersi il testimone della staffetta artistica, dopo averlo strappato a un’Europa e a una Francia in cui l’aumento delle tensioni politiche indirizzava verso un nuovo conflitto.

Le immagini allucinate, insieme alla sfumatura delle forme con cui il pittore russo restituiva i personaggi e i paesaggi vennero “timbrate” dalla critica statunitense come rivelazioni pionieristiche di quell’“espressionismo astratto” che avrebbe contribuito dopo la seconda guerra mondiale a spostare radicalmente la capitale artistica da Parigi a New York. Di certo Soutine non è mai stato un pittore astratto, né mai ha saputo o voluto appartenere a qualsivoglia corrente artistica, essendo la natura tragica dei suoi quadri ancorata ai suoi tormenti interiori. Ma la volontà di un pittore conta ben poco nel progredire dell’avventura culturale dell’arte.

Di fatto De Kooning, nei suoi tentativi di liberarsi dalla contrapposizione tra figurativo e astrazione che si stava cristallizzando sempre di più negli ambienti americani, trovò in Soutine una sorta di “complice”, l’antesignano di una “terza via” che, pur trasfigurando le immagini, non le eliminava mai totalmente. Più volte nell’arco degli anni De Kooning visitò le esposizioni dedicate a Soutine. Alcune di queste furono organizzate proprio dalla Barnes Foundation di Filadelfia, che possedeva un gran numero di opere del pittore russo. Ma fu alla fine del 1950, dopo aver visto la retrospettiva del MoMa, sette anni dopo la morte di Soutine, che De Kooning, sempre in fuga tra figure e astrattismo, trovò il suo equilibrio con la serie delle sue Women dal sorriso feroce e dalle pose ostentatamente provocatorie. La mostra all’Orangerie confronta Soutine, che nel 1921 dipingeva attraverso un turbinio di pennellate La collina di Céret, offrendocene un’immagine quasi astratta, con De Kooning, che nel 1971 realizza Woman in a Garden in cui mantiene forme rotondeggianti pur rendendo la figura quasi irriconoscibile, come anche in Woman in Landscape III. Ma il legame con l'artista russo è ancora più evidente in Amityville. Altri esempi di trasfigurazioni e trasformazioni in cui si ripercorre il dialogo a distanza tra Soutine e De Kooning sono, rispettivamente, Il villaggio e ...Whose Name Was Writ in Water.

«La conversazione pittorica che proponiamo è forzatamente asimmetrica», sottolinea Claire Bernardi. «Storicamente è De Kooning che guarda l’opera di Soutine. È intorno allo sguardo del pittore americano sul suo predecessore che si articola il filo dell’esposizione. Più di tutti gli altri artisti della sua generazione De Kooning ha infatti saputo riconoscere la tensione tra i due poli apparentemente opposti dell’opera di Soutine: la ricerca di uno schema o di un ordine, aumentata anche dalla sua passione per i maestri dell’arte, e una tendenza pronunciata all’informale».

Il legame mai interrotto con la tradizione pittorica, che lo ispira ma che liberamente infrange, Soutine lo “racconta” nei suoi quadri attraverso le molte “citazioni” di Rembrandt e di El Greco, come pure di Courbet e Chardin. Ma anche De Kooning guarda a Rembrandt, così come altri maestri della sua terra d’origine. E se l’artista russo mantenne la distanza con i movimenti avanguardisti del suo tempo, dai Dada ai surrealisti, restando sempre un isolato, De Kooning sarà sempre ostile a Andy Warhol e alla Pop Art, considerati il simbolo nefasto dell’abbandono dell’espressionismo astratto. A Warhol ebbe a dire: «Hai fatto fuori l’arte, la bellezza e persino il riso. Non riesco a sopportare il tuo lavoro».

Chaïm Soutine / Willem de Kooning, la peinture incarnée

a cura di Claire Bernardi
Parigi, Musée de l’Orangerie
fino al 10 gennaio 2022
esposizione organizzata con la Barnes Foundation di Filadelfia
catalogo Hazan
www.musee-orangerie.fr

ART E DOSSIER N. 391
ART E DOSSIER N. 391
OTTOBRE 2021
In questo numero: INCONTRI RAVVICINATI: Gli eleganti alieni di Giger. Visitatori da altri mondi nell'arte medievale. MUSEI RITROVATI: L'archeologico di Cividate Camuno. La casa di Ensor a Ostenda. IN MOSTRA:Cattelan a Milano; La collezione Rota a Lucca; Soutine e De Kooning a Parigi; Il ritratto ad Amsterdam; Venere a Mantova.Direttore: Claudio Pescio