La strada per giungere a realizzare delle pale d’altare, da esporre al pubblico, è lunga. All’inizio, questo manipolo di donne realizza dipinti di piccole dimensioni, destinati alla devozione privata o concentrati su ritratti. A loro non era infatti concesso di esercitarsi nello studio del nudo dal vero, che costituiva una delle basi per la pittura di storia, ben presto al vertice dei generi artistici.
Non solo il padre di Fede Galizia è un artista: lo sono anche suo zio, Alessandro, e suo nonno, Giacomo Antonio. La famiglia viene da Cremona, ma Giacomo Antonio è già attestato nel 1515 a Sevignano, un piccolo centro in Val di Cembra, non lontano da Trento. Nunzio risiede a Pergine, in Valsugana, ma risulta attivo nel capoluogo della regione almeno dal 1534 al 1574. Nonostante le forze messe in campo dal Concilio, le offerte di lavoro per un artista a Trento non dovevano essere tante. E così, chissà se avendo già con sé la piccola Fede, Nunzio lascia il paese in mezzo ai monti per trasferirsi a Milano, la capitale di uno Stato che dipende dal re di Spagna. È uno dei centri europei delle industrie del lusso. Su quel mercato, alla ricerca di sperimentazioni continue, si getta l’artista, che nel 1573 chiede al governatore l’esclusiva per un’invenzione da lui messa a punto: la miniatura dei ventagli “alla spagnola”. Ma Nunzio pratica anche l’incisione con la tecnica dell’acquaforte e a lui si deve la più bella immagine di Milano uscita dal flagello della peste del 1576-1578. Inoltre è anche autore di paste muschiate, micro sculture realizzate a partire dalle secrezioni del mosco, un animale dell’Oriente: se le contendono i signori d’Italia per esibirle in occasioni di prestigio. E infine, il padre di Fede Galizia è anche un uomo di teatro, coinvolto nei grandi spettacoli che allietano la vita dei potenti milanesi. Accanto a lui comincia a farsi strada sua figlia, le cui doti sono già magnificate, a stampa, nel 1587.
Fin da quando si comincia a mettere a fuoco l’identità artistica di Fede Galizia, la pittrice risulta essere impegnata nella produzione in serie di alcune composizioni di carattere religioso. Porta la data del 1596 l’esemplare più antico raffigurante il tema di Giuditta e la sua serva Abra, attinto dall’Antico testamento. La giovane vedova ebrea offre all’artista un motivo per rappresentare vesti sontuose e gioielli preziosi, sulla scia di quanto aveva fatto in Veneto Paolo Veronese. Le figure assecondano lo stile del pittore del momento a Milano: il bolognese Camillo Procaccini. Si conoscono almeno sei versioni autografe del soggetto.
Fede, che è celebrata soprattutto per il suo Paolo Morigia (storico appartenente all’ordine dei gesuati), immortalerà giuristi, medici (come il protofisico Ludovico Settala, rammentato nei Promessi sposi), sovrane, dalla principessa di Monaco a Margherita d’Austria (moglie di Filippo III e regina di Spagna), all’infanta Isabella Clara Eugenia d’Asburgo (figlia di Filippo II e moglie dell’arciduca Alberto d’Asburgo). S’ignora il destino degli ultimi due ritratti appena citati, portati da Nunzio a Roma al cardinale Cinzio Aldobrandini, nipote di Clemente VIII.
Fede Galizia è una delle prime pittrici a cimentarsi con le pale d’altare pubbliche. Il suo Noli me tangere - ricco di inserzioni floreali, vero parallelo alle sue nature morte, e con i broccati nelle vesti della Maddalena che gareggiano con quelli delle sue Giuditte - è celebrato nei secoli, anche quando il gusto sta virando verso il neoclassicismo. Una sua opera è richiesta dal bergamasco Pietro Cortone nel 1611 per una chiesa di Napoli, città nella quale si trovava già dall’anno precedente una sua Adorazione dei magi, ritrovata in occasione di questa mostra in San Pasquale a Chiaia. Il numero più grande di dipinti sacri realizzati da Fede per una chiesa era conservato però in quella limitrofa alla sua abitazione: Sant’Antonio Abate, a cui destinerà anche le sue ultime volontà. Il 21 giugno 1630, nel suo testamento redatto a Milano, assediata dalla peste, su sei dipinti citati da lasciare in eredità alla chiesa dell’ordine dei teatini, ne ricorda tre come derivati dal Correggio. Sembra quasi che Fede si fosse specializzata in copie da opere della Scuola di Parma, che godevano di un enorme consenso all’epoca. La pittrice affronta questi impegni secondo una prassi seriale, interpretata con un atteggiamento quasi meccanico facilmente riconoscibile, che caratterizza il suo modo di provarsi in tutti i generi della pittura: dal ritratto alla natura morta, passando per i soggetti sacri. È forse questa la chiave del suo successo.