Blow up

MOSSE,
COLLEZIONE WALTHER

di Cristina Baldacci

Posticipata di un anno per la pandemia, la Biennale di Helsinki invita a ripensare la sostenibilità economica e ambientale delle grandi kermesse artistiche

È un’esperienza sorprendente osservare le fotografie di Richard Mosse (classe 1980) ora esposte al Mast di Bologna fino al 19 settembre nella prima antologica dedicata all’artista irlandese: Displaced. Migrazione, conflitto, cambiamento climatico (www.mast.org), a cura di Urs Stahel. 


Settantasette immagini di grande formato ci immergono nell’attualità cruda ma con effetti spettacolari: una provocazione per il nostro sguardo. Sì, perché davanti al reportage realizzato in Congo (Infra, dal 2010 al 2015) – dove dai primi anni Novanta, nelle regioni orientali, è in corso un conflitto che affonda le sue radici nel passato coloniale, nel regime post-coloniale e nel genocidio del Ruanda – il risultato è un’accesa composizione cromatica. Sovvertendo i canoni della fotografia documentaria, Mosse decide infatti di usare per questo progetto la pellicola Kodak Aerochrome (fuori produzione), sensibile ai raggi infrarossi, utilizzata in ambito militare per scovare il nemico. Una pellicola che «registrando la clorofilla presente nella vegetazione», come leggiamo nel catalogo della mostra, trasforma il verde e il marrone del paesaggio in tonalità che vanno dal rosa al rosso. «Queste pellicole ci aiutano a vedere ciò che è invisibile, ciò che è nascosto, percepire il celato e portare qualcosa dall’invisibile allo spettro del visibile», afferma lo stesso artista, convinto pure che «amplificare la potenza estetica delle immagini aiuta a comunicare meglio». Il suo scopo è indurre un’impressione indelebile nella percezione dello spettatore, vero bersaglio del suo racconto visivo. Legata alla serie Infra è la videoinstallazione The Enclave (2012), l’opera con cui il fotografo ha rappresentato l’Irlanda alla Biennale di Venezia nel 2013. Una narrazione complessa, dove ciascun fotogramma è un manifesto dell’immane tragedia vissuta dal Congo ma sottaciuta perlopiù dalla stampa internazionale. Con il ciclo Heat Maps (2016-2017) l’attenzione di Richard Mosse si sposta sulle migrazioni di massa e sui campi profughi in Libano, Grecia, Turchia, Germania. Qui, l’uso della termocamera sul bianco e nero – strumento anche questo frequente in campo militare, che permette di registrare le differenze di calore nell’intervallo degli infrarossi – produce un effetto di «straniamento», come sottolinea il curatore nel catalogo. Skaramagas (2016) ne è un esempio significativo. Dal nome dell’omonima città portuale a ovest di Atene, l’imponente immagine è una drammatica architettura dominata da container con persone non distinguibili nelle loro identità. E ancora la serie Ultra (2018-2019) e Tristes Tropiques (ancora in corso), entrambe realizzate nella foresta pluviale amazzonica. L’una per esaltarne la bellezza, l’altra per esplorare i crimini commessi ai danni dell’ambiente.

Ci sono voluti dieci anni prima che il MoMa, dall’anno della sua inaugurazione, 1929, istituisse un dipartimento di fotografia. Un risultato non scontato ma certamente fin da subito nelle intenzioni di Alfred Hamilton Barr Jr., fondatore del museo americano, che nel 1936 in occasione di due iconiche esposizioni - Cubism and Abstract Art e Fantastic Art, Dada, Surrealism - decide di presentare anche opere fotografiche di autori come Moholy-Nagy, Man Ray e Dora Maar. Quelle esperienze aprono definitivamente le porte del MoMA alla fotografia. Poco dopo cominciano le prime acquisizioni (dapprima grazie al supporto di mecenati) fino ad arrivare tra 2001 e 2017 all’acquisto della collezione Walther, composta da circa quattrocento lavori. Una parte cospicua di questa raccolta è in mostra al Masi Lugano - Museo d’arte della Svizzera italiana (Capolavori della fotografia moderna 1900-1940. La collezione Thomas Walther del Museum of Modern Art, New York, fino al 1° agosto, www.masilugano.ch), a cura di Sarah Hermanson Meister, Quentin Bajac e Jane Pierce. La collezione - che comprende, tra gli altri, scatti di Berenice Abbott, Max Burchartz, Tina Modotti, Walker Evans, Edward Weston - è uno spaccato fondamentale dell’espressione creativa della fotografia tra le due guerre mondiali, attribuibile «alla circolazione dinamica di persone, idee, immagini e intenti che caratterizzò questo periodo in Europa e negli Stati Uniti», come leggiamo nel catalogo della mostra. Un patrimonio frutto della sensibilità di un raffinato conoscitore dell’arte, Thomas Walther, che tra 1977 e 1997 è riuscito a raccogliere le migliori opere fotografiche dei primi quarant’anni del XX secolo. Irrinunciabili per il MoMA.


Max Burchartz, Lotte, Occhio (1928), New York, MoMA - Museum of Modern Art.

ART E DOSSIER N. 389
ART E DOSSIER N. 389
LUGLIO-AGOSTO 2021
In questo numero: L'IBRIDO NEL LABIRINTO: Dalla parte del minotauro. NUOVI MUSEI : La Fondazione Biscozzi/Rimbaud a Lecce. SAVE ITALY: La rinascita di Pianosa. IN MOSTRA: Penone a Firenze. Leonor Fini a Trieste. Tina Modotti a Milano. Altara e Accornero a Nuoro. Il Ponte di Bassano.Direttore: Claudio Pescio