Studi e riscoperte. 2
Pietro Paolini

Un maestro
da scoprire

Artista noto agli specialisti ma sconosciuto ai più, Pietro Paolini, formatosi nella bottega romana di Angelo Caroselli, colto pittore barocco, ha offerto la sua personale interpretazione del naturalismo di matrice caravaggesca nel solco degli autori di seconda generazione.

Maurizia Tazartes

«Pittore di gran bizzarria, e di nobile invenzione» l’aveva definito Filippo Baldinucci, uno dei primi biografi, suo contemporaneo. Il «maggiore pittore lucchese del Seicento» secondo il giudizio dei posteri, da Mina Gregori in poi. 


Pietro Paolini, nato e morto a Lucca (battezzato il 30 giugno 1603, morto il 12 aprile 1681), è infatti una rivelazione per chi si inoltri nel suo cammino. Un originale caravaggesco della “seconda ora”, con una sua maniera particolare, raggiunta attraverso il filtro dei pittori attivi a Roma alla fine del secondo decennio del XVII secolo, Angelo Caroselli in primis. Fertilissimo, il suo nome si incontra infatti in maniera quasi ossessiva consultando antichi inventari lucchesi. Un grande artista, in grado di affrontare tutti i temi e i formati, dai grandi dipinti d’altare ai quadri da cavalletto raffiguranti concerti, ritratti, scene sacre e profane. Un maestro, fondatore nel 1652 di una scuola del nudo a Lucca, con molti allievi. Parecchi dei suoi dipinti girano ancora sul mercato antiquario, altri sono in collezioni private o in noti musei internazionali. 


Eppure Pietro Paolini rimane terreno di indagini specialistiche, ignoto al grande pubblico. Grazie a ricerche recenti in ambito lucchese e romano, presentate in un paio di volumi che raccolgono i contributi di due giornate di studio(1), possiamo saperne di più su opere, contesto familiare, cultura, personaggi ritratti. Tra le prime, Paolini poteva vantare le biografie postume del già citato Baldinucci (1728) e dell’erudito lucchese Giacomo Sardini (1822), poi alcuni articoli di storici a partire dal 1963 e la pionieristica monografia di Patrizia Giusti Maccari del 1987(2). Era ben chiaro che, nato da una “riguardevole e nobile” famiglia, figlio di Tommaso di Michelangelo Paolini e di Ginevra di Domenico Raffaelli, secondo di numerosi fratelli, il pittore molto giovane era stato allievo del romano Angelo Caroselli, come riportano le fonti. Ma sfuggiva l’educazione in patria, prima della partenza per Roma. Se pure non sono ancora stati individuati i primi maestri di pittura a Lucca, le ricerche recenti di Giusti Maccari informano con maggiori dettagli sull’ambiente familiare di formazione, sugli studi, sulla preparazione musicale e teatrale e sui personaggi tramite del trasferimento del giovane a Roma. Informazioni che si aggiungono a quelle pubblicate nel 2002 in un saggio di Eva Struhal(3). Emerge una trama complessa di rapporti tra nobili e prelati di Lucca e della Città eterna, che permettono a Pietro Paolini di trovare una sistemazione a Roma in una data imprecisata tra il 1623 e non oltre il 1625, quando è sicuramente partito da Lucca. Caroselli dal 1616 al 1625 circa lavora a Napoli con moglie e figli piccoli. Ma nel 1626 è certamente a Roma con la famiglia, come documentato negli Stati d’anime di Santo Spirito in Sassia alla Longara. È probabile che Paolini entri nella sua bottega nel 1626, non lo sappiamo con esattezza. Qualche anno dopo arriverà anche il fratello più giovane di Pietro, Paolo Paolini (alias Paolino), che morirà in casa di Caroselli nel 1638 in seguito a una rissa.

La bottega di Caroselli, già del padre rigattiere, era un negozio di antiquario dove si faceva mercato di quadri, si insegnava pittura, si restaurava, si dipingeva. Lì avviene certamente gran parte della formazione pittorica di Paolini, sotto l’egida del colto maestro, nutrito di letteratura antica, alchimia, esoterismo, a contatto di pittori romani, nordici, francesi, di stampatori, editori, mercanti. Il pittore lucchese è registrato nel 1628 negli Stati d’anime di San Biagio della Fossa (chiesa romana demolita nel 1812 durante l’annessione della città all’impero francese) e il 30 giugno dello stesso anno in un atto notarile, indicato come «Pietro Paolini di Lucca, figlio di Tommaso». L’artista lucchese si ferma a Roma fino agli anni Trenta con brevi ritorni nella città toscana, mantenendo rapporti con l’Urbe anche in seguito. In quell’atelier dipinge i primi concerti, le allegorie e le scene di genere, composizioni a lume di candela, che presentavano serate musicali, inganni d’amore, vanità, bari, intrisi di malizia e malinconia, con sottintesi morali. Le opere, all’inizio molto vicine a quelle del maestro, sono presto riconoscibili. La matrice è il naturalismo di Caravaggio, interpretato in modo personale, con scambi e in parallelo ai pittori nordici e francesi seguaci della “manfrediana methodus” (termine con cui lo storico e pittore Joachim von Sandrart aveva definito nel 1675 lo stile del caravaggista della “prima ora” Bartolomeo Manfredi).

L’intrigante Concerto già Malibu, J. Paul Getty Museum, del 1625-1628, firmato sul liuto tenuto dalla giovane al centro «PPL» (Petrus Paulinus Lucensis), sembra anticipare le tipologie femminili del capolavoro del maestro con Salomone e le sue concubine. Tre giovani donne e un giovane alato, Cupido, fanno musica di fronte a un violino e a spartiti musicali. Tutto è eleganza e apparente spensieratezza, ma non manca una nota cupa espressa dalla figura all’estrema sinistra. Il modello sono i Musici di Caravaggio, i personaggi, espressivi e sottolineati dalla luce, sono ripresi dalla realtà. Degli stessi anni circa è il Concerto bacchico del Dallas Museum of Art, restituito al pittore da Roberto Longhi nel 1971. Dominato dalla sensuale schiena nuda di Bacco, che suona un flauto, il dipinto ha come tema il dio del vino, ricordato dal serto di vite e dal grappolo d’uva dei due ebbri cantori. Un tema cui erano sensibili gli artisti nordici del quartiere bohémien del Pincio e che si intrecciava con quelli dell’amore e della musica, esaltata dallo splendido strumento musicale in primo piano. Ogni volto è un ritratto dal vero.


Concerto a cinque figure (dopo il 1640).


La buona ventura (1625-1628), Auckland, Auckland Art Gallery.

Lo stesso realismo è nella Buona ventura, un’altra suggestiva tela conservata all’Auckland Art Gallery. Il soggetto caravaggesco è trattato con estrema finezza, senza eccessi, mettendo in posa personaggi reali. Nello stesso clima e negli stessi anni, I bari, di collezione privata, riportano alle tante scene di taverna dei pittori francesi e fiamminghi attivi a Roma nel terzo decennio del Seicento, da Bartolomeo Manfredi a Valentin de Boulogne. Interessanti il gioco di espressioni e la maschera, con tutti i significati che comportano, l’intensità dei rossi e la preziosità dei drappi, tipica di un pittore che conosceva bene le seterie lucchesi. 

Tra i dipinti più poetici del giovane Paolini c’è Le tre età della vita della collezione Mazzarosa di Lucca, una allegoria ancora legata a Caroselli nei contenuti simbolici e nel linguaggio. La giovane donna, che si sistema con grazia l’orecchino, è vicina alle figure femminili dipinte (e amate) dal maestro. In questa magnifica tela tutto parla della “vanitas” dell’esistenza: il vaso di fiori di matrice caravaggesca, le perle, il fiasco di vino, e anche la cetra (col foglio di musica), uno strumento che Paolini condivideva con Caroselli nella vita e nei dipinti.

Del Concerto a cinque figure si conoscono due versioni: una di collezione privata (qui pubblicata), firmata sulla tiorba, lo strumento in evidenza all’estrema sinistra, l’altra, forse una replica, conservata al Louvre. I cinque musici sono concentrati sull’esecuzione del brano musicale che il sofisticato giovane sulla destra invita ad ascoltare. Questo personaggio indossa un elegante abito di broccato rosso, come quelli tessuti a Lucca, e un vistoso cappello. La figura centrale ha sulla fronte una cicatrice che si ritrova in altri ritratti dello stesso uomo, come nota Giusti Maccari. Il forte naturalismo di Paolini era ben noto già agli allievi: «Non dipinse mai cosa, che non cavasse dal naturale» diceva di lui Girolamo Scaglia.

ART E DOSSIER N. 388
ART E DOSSIER N. 388
GIUGNO 2021
In questo numero: LEGAMI Renzo Piano e Gillo Dorfles. Mary Cassatt e Louisine Havemeyr. PRIME TRACCE DI MONDI NUOVI: Due mappe del Rinascimento. IN MOSTRA: Ionda a Firenze; Samorì a Bologna; Arte americana a Firenze; Schmidt a Parigi; Casa Balla a Roma; Odori all'Aja.Direttore: Claudio Pescio