XXI Secolo
Gildo Dorfles e Renzo Piano

gli sguardi
e i silenzi

Aldo Colonetti

Sono stati tanti e nei luoghi più diversi gli incontri tra Gillo Dorfles e Renzo Piano; per amicizia profonda, per grande stima reciproca, per un’empatia personale che va al di là della biografia e della notorietà: per Gillo come per Renzo prima vengono le persone, poi il ruolo che svolgono nella società. 


Sono stato testimone diretto di questo lungo e infinito dialogo che non si è mai idealmente interrotto nemmeno quando il nostro grande vecchio, Dorfles, se n’è andato, il 2 marzo 2018, poco più di un mese prima di compiere centootto anni. Ho conosciuto Gillo nel 1966, era il mio professore di Estetica alla Statale di Milano; con lui mi sono laureato e da allora abbiamo lavorato insieme, curato mostre e girato il mondo, alla ricerca delle “bellezze quotidiane”, in primis nell’architettura, disciplina a cui Dorfles ha dedicato centinaia di scritti, fino dagli inizi degli anni Trenta. 


Per lavoro ho conosciuto direttamente Renzo Piano in occasione del progetto della grande mostra da lui allestita a Torino nel 1983, dedicata ad Alexander Calder e ospitata nel Palazzo a Vela, disegnato da Pier Luigi Nervi. Ricordo la visita con Gillo, insieme al comune amico Franco Origoni che in questo lungo percorso è sempre stato presente, anche in relazione alla sua lunga collaborazione professionale con il Renzo Piano Building Workshop fin dagli anni Ottanta.

Ovviamente Gillo aveva già visitato nell’anno dell’inaugurazione, il 1977, il Beaubourg di Piano e Rogers. Come ricorda Piano, «mi viene in mente ora un Gillo che guardava con curiosità e attenzione il cantiere dell’Ircam» - centro internazionale di ricerche sulla musica e il suono che ha sede vicino al Centre Pompidou, il Beaubourg, appunto, dal nome del luogo in cui sorge - «probabilmente su invito del comune amico Luciano Berio, direttore della divisione elettrico-acustica dell’istituto parigino, fondato e diretto da Pierre Boulez. La musica contemporanea è un altro linguaggio che ci accomuna; da parte mia per l’antica amicizia con Berio che Gillo ha sempre frequentato, molto prima di me, credo dalla fondazione del famoso Studio di fonologia musicale presso la Rai di Milano fondato da Berio con Bruno Maderna. Ecco, la musica: io un dilettante, invece Gillo un pianista provetto.

Lo ricordo, autunno 2006, durante un pranzo a casa con mia moglie Milly, te e Franco Origoni, a Vesima vicino a Genova, dove a un certo punto si mise al pianoforte a coda e improvvisò un brano, per provare se era accordato. Con discrezione ma sempre attento alla qualità delle cose che aveva intorno. Anche in quella occasione, era seduto sulla famosa poltrona Lounge Chair di Charles Eames. Era di mio padre». Gillo aveva tutto sotto controllo, avendo vissuto come protagonista tutto il secolo.


Il racconto di un rapporto e di un dialogo ininterrotto fra due grandi del nostro tempo da parte di un testimone privilegiato


Renzo Piano, Zentrum Paul Klee (2005), Berna.

Gli sguardi e i silenzi di Gillo. La sintesi dell’analisi critica e l’attenzione ai particolari. Nel mese di giugno 2005 fu organizzata una visita riservata a pochi amici in occasione dell’inaugurazione del museo Klee a Berna, su progetto di Piano. Andammo in auto da Milano, visitando prima a Basilea la Fondation Beyeler, ancora di Piano, che Dorfles non aveva ancora visto (e che poi giudicò come uno dei suoi migliori progetti in assoluto), per poi il giorno dopo andare a Berna e insieme allo stesso architetto e pochi altri amici visitare il nuovo museo. Gillo era rimasto entusiasta dell’edificio di Basilea perché «ogni spazio espositivo era pensato nel rispetto dei tempi e degli spazi di ciascun visitatore, il tutto all’interno di un «contesto normale», come se opere eccezionali, per esempio le sculture di Giacometti e le Ninfee di Monet, fossero ospitate in un casa privata. Dopo la visita, seduti uno di fronte all’altro, sullo sfondo il museo appena visitato insieme, «chiedo a Gillo che cosa ne pensava», racconta Piano, «anche perché sapevo che Klee è da sempre per lui non solo un pittore, ma un profondo conoscitore dei processi che stanno alla base del nostro mondo di vedere il mondo, i colori, i linguaggi della forma, la musica. Gillo è stato per circa quindici secondi silenzioso, poi con il suo garbo e le parole scandite lentamente: “Bel progetto Renzo, bella sala per conferenze e per concerti, straordinaria raccolta, ma credo che abbia bisogno ancora un po’ di tempo per diventare completamente un tuo progetto: l’erba intorno deve crescere, forse un po’ di piante”. Ecco, mi manca tantissimo», continua Piano, « un osservatore amico che guardava sempre oltre per cercare di comprendere che cosa c’è dietro ogni nostro pensiero, ogni nostra azione. Cogliere la parte come segno del tutto che ci circonda: artificio e natura, intervallo perduto non sono solo alcuni titoli dei suoi saggi, rappresentano l’occhio e la mente di chi è capace di arrivare al profondo delle cose, facendolo capire senza presunzione né arroganza. Che cosa ho fatto il giorno dopo? Ho chiamato subito il responsabile del nuovo museo per chiedere loro di piantare alcuni alberi».

Ogni opera si completa in un processo infinito attraverso lo sguardo degli altri. Certamente quello di Dorfles era di un amico speciale.

L’architettura ha bisogno di queste persone straordinarie, che sono anche antenne insuperabili del gusto.

«A Gillo chiedevo consigli, non solo perché c’era una stima reciproca, ma in quanto i suoi silenzi come le sue osservazioni erano sempre mirate al completamento del significato di un progetto, in architettura come nella relazione tra le arti contemporanee e il progetto».

Per il santuario di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, realizzato nel 2004, Piano aveva pensato di coinvolgere una serie di artisti contemporanei, tra i quali Arnaldo Pomodoro, Roy Lichtenstein e Robert Rauschenberg al quale aveva chiesto di intepretare l’Apocalisse: il primo risultato fu un disegno su un cartoncino con alcuni schizzi e al centro, in scala, una navetta spaziale. L’imbarazzo immediato da parte di Renzo non fu ovviamente per la qualità dell’opera, quanto per il probabile rifiuto da parte dell’autorità religiosa in relazione all’oggetto spaziale, una sorta di nuova divinità. Come poteva convincere l’amico Bob senza avere l’autorevolezza del critico d’arte? «Pensai immediatamente a Gillo, tra altro amico d’antica data dell’artista americano in quanto era stato il curatore della sua prima mostra in Italia, fine anni Cinquanta. Era l’unico in grado di affrontare un tema così delicato». La sua affermazione fu sicura e geniale, come sempre: «Credo che l’iconografia sacra debba mantenere un rispetto della figurazione ma anche della tradizione, proprio in relazione alla sua funzione di comunicazione religiosa. Perché allora, Renzo, non pensare a una grande riproduzione dell’opera di un maestro, un esempio, Il giudizio universale di Giotto nella cappella degli Scrovegni? Oggi possiamo fare miracoli con le tecnologie nella replica di una grande opera come se fosse originale». Tanto bastò a non farne di niente. Questa era la sua straordinaria capacità di dialogo tra passato e presente, senza alcuna remora accademica nel risolvere un problema progettuale, utilizzando al meglio le nuove tecnologie per riprodurre fedelmente un’opera d’arte antica. «Un rivoluzionario vero, un’indicazione geniale che risolveva un problema di relazione e dall’altro offriva una possibile strada da percorrere », ricorda sorridendo ancora oggi Piano.

«Prima o dopo ritroverò una fotografia che in un certo senso raccoglie sinteticamente le nostre vite ma anche le nostre comuni avventure intellettuali. Il 14 settembre 2007, in occasione del mio settantesimo compleanno, durante la mostra, ospitata alla Triennale di Milano, Le città visibili, fu organizzato un pranzo nel giardino del palazzo per festeggiarmi. Qualche decina di amici, tra i quali, ovviamente Dorfles e Richard Rogers. Al centro della foto stava Gillo, ai due lati Richard ed io, vecchi amici ma anche i responsabili di un gesto progettuale irriverente come il Beaubourg». Richard Rogers, nato a Firenze, in una famiglia di italiani emigrati in Inghilterra, influenzato dalla figura del grande architetto Ernesto Nathan Rogers, cugino del padre ma soprattutto amico da sempre, perché tutte e due triestini, di Gillo.

Ricorda Renzo Piano, con una certa nostalgia, «una sorta di padre putativo che con leggerezza, come se ci fosse un invisibile “file rouge”, è sempre stato tra noi: in quella fotografia c’era un po’ la storia di quella particolare tradizione culturale italiana che è andata nel mondo, non dimenticando mai le sue origini. Da Trieste nel mondo, passando attraverso alcune tappe, lasciando qua e là le tracce di un pensiero aperto ed eclettico. Qualcosa da Gillo ho cercato d’imparare, oltre a essere nato anch’io in una città di mare, Genova, dove Dorfles aveva vissuto da adolescente. Certamente la sua leggerezza e la curiosità verso gli altri, senza invidia».

Come diceva Pablo Picasso, i cattivi artisti copiano, i geni rubano.


Dorfles, Piano, Colonetti nella casa di Piano a Vesima (Genova).


Renzo Piano, chiesa di padre Pio (2004), San Giovanni Rotondo (Foggia), l’altare con la Crocifissione di Arnaldo Pomodoro.


ART E DOSSIER N. 388
ART E DOSSIER N. 388
GIUGNO 2021
In questo numero: LEGAMI Renzo Piano e Gillo Dorfles. Mary Cassatt e Louisine Havemeyr. PRIME TRACCE DI MONDI NUOVI: Due mappe del Rinascimento. IN MOSTRA: Ionda a Firenze; Samorì a Bologna; Arte americana a Firenze; Schmidt a Parigi; Casa Balla a Roma; Odori all'Aja.Direttore: Claudio Pescio