Ogni opera si completa in un processo infinito attraverso lo sguardo degli altri. Certamente quello di Dorfles era di un amico speciale.
L’architettura ha bisogno di queste persone straordinarie, che sono anche antenne insuperabili del gusto.
«A Gillo chiedevo consigli, non solo perché c’era una stima reciproca, ma in quanto i suoi silenzi come le sue osservazioni erano sempre mirate al completamento del significato di un progetto, in architettura come nella relazione tra le arti contemporanee e il progetto».
Per il santuario di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, realizzato nel 2004, Piano aveva pensato di coinvolgere una serie di artisti contemporanei, tra i quali Arnaldo Pomodoro, Roy Lichtenstein e Robert Rauschenberg al quale aveva chiesto di intepretare l’Apocalisse: il primo risultato fu un disegno su un cartoncino con alcuni schizzi e al centro, in scala, una navetta spaziale. L’imbarazzo immediato da parte di Renzo non fu ovviamente per la qualità dell’opera, quanto per il probabile rifiuto da parte dell’autorità religiosa in relazione all’oggetto spaziale, una sorta di nuova divinità. Come poteva convincere l’amico Bob senza avere l’autorevolezza del critico d’arte? «Pensai immediatamente a Gillo, tra altro amico d’antica data dell’artista americano in quanto era stato il curatore della sua prima mostra in Italia, fine anni Cinquanta. Era l’unico in grado di affrontare un tema così delicato». La sua affermazione fu sicura e geniale, come sempre: «Credo che l’iconografia sacra debba mantenere un rispetto della figurazione ma anche della tradizione, proprio in relazione alla sua funzione di comunicazione religiosa. Perché allora, Renzo, non pensare a una grande riproduzione dell’opera di un maestro, un esempio, Il giudizio universale di Giotto nella cappella degli Scrovegni? Oggi possiamo fare miracoli con le tecnologie nella replica di una grande opera come se fosse originale». Tanto bastò a non farne di niente. Questa era la sua straordinaria capacità di dialogo tra passato e presente, senza alcuna remora accademica nel risolvere un problema progettuale, utilizzando al meglio le nuove tecnologie per riprodurre fedelmente un’opera d’arte antica. «Un rivoluzionario vero, un’indicazione geniale che risolveva un problema di relazione e dall’altro offriva una possibile strada da percorrere », ricorda sorridendo ancora oggi Piano.
«Prima o dopo ritroverò una fotografia che in un certo senso raccoglie sinteticamente le nostre vite ma anche le nostre comuni avventure intellettuali. Il 14 settembre 2007, in occasione del mio settantesimo compleanno, durante la mostra, ospitata alla Triennale di Milano, Le città visibili, fu organizzato un pranzo nel giardino del palazzo per festeggiarmi. Qualche decina di amici, tra i quali, ovviamente Dorfles e Richard Rogers. Al centro della foto stava Gillo, ai due lati Richard ed io, vecchi amici ma anche i responsabili di un gesto progettuale irriverente come il Beaubourg». Richard Rogers, nato a Firenze, in una famiglia di italiani emigrati in Inghilterra, influenzato dalla figura del grande architetto Ernesto Nathan Rogers, cugino del padre ma soprattutto amico da sempre, perché tutte e due triestini, di Gillo.
Ricorda Renzo Piano, con una certa nostalgia, «una sorta di padre putativo che con leggerezza, come se ci fosse un invisibile “file rouge”, è sempre stato tra noi: in quella fotografia c’era un po’ la storia di quella particolare tradizione culturale italiana che è andata nel mondo, non dimenticando mai le sue origini. Da Trieste nel mondo, passando attraverso alcune tappe, lasciando qua e là le tracce di un pensiero aperto ed eclettico. Qualcosa da Gillo ho cercato d’imparare, oltre a essere nato anch’io in una città di mare, Genova, dove Dorfles aveva vissuto da adolescente. Certamente la sua leggerezza e la curiosità verso gli altri, senza invidia».
Come diceva Pablo Picasso, i cattivi artisti copiano, i geni rubano.